In ogni epoca e
in ogni sport c’è stata una squadra, un atleta, un allenatore, che ha scritto
pagine memorabili di quella specifica disciplina, segnandone per sempre la
propria storia, dandogli una svolta, cambiandogli volto.
E’ stato così nel
pugilato con Muhammad Ali, nel football con l’Olanda del “calcio totale” di Johan
Cruijff, nel tennis con Rod Laver, nell’atletica leggera con Jesse Owens e nella
pallavolo con la grande nazionale statunitense che per un intero quinquennio degli
anni 80, e precisamente dal 1984 al 1988, non solo ha dominato le scene
internazionali ma ha letteralmente cambiato i connotati della pallavolo
mondiale, rivoltandola come un calzino e stravolgendola da ogni punto di vista.
Dall’inizio
delle manifestazioni internazionali del dopoguerra agli inizi degli anni ’80, la
scena mondiale è dominata dalle squadre dell’Est: URSS, Cecoslovacchia,
Germania Est, Giappone e Polonia si sono divise il gradino più alto del podio e
da metà degli anni ’70 è l’Unione Sovietica di Platonov, uno dei grandi santoni
della pallavolo mondiale, che la fa da padrone. Vjačeslav Platonov, nato a
Puskin il 21 gennaio 1939, guida la nazionale maggiore sovietica dal 1977. Ha
vinto l'oro ai Giochi olimpici di Mosca 1980, due mondiali consecutivi, in
Italia nel 1978 e in Argentina nel 1982, tre campionati europei (1977, 1979,
1981) e due Coppe del Mondo (1977, 1981), allenando le proprie squadre attraverso il metodo
dell’universalizzazione, un sistema grazie al quale ogni atleta veniva allenato
a “saper fare tutto”. Ricevere, difendere, alzare, schiacciare ogni tipo di
traiettoria e murare in ogni zona della rete. Questa metodologia, in quanto
vincente, è stata copiata da tutti gli allenatori e utilizzata in maniera pressochè
dogmatica in tutte le federazioni europee, Italia compresa.
Dall’altra parte
dell’oceano, e precisamente negli Stati Uniti d’America, sta però nascendo in
sordina un modo completamente diverso e rivoluzionario di fare pallavolo. Al
termine degli anni ’70 e all’inizio degli anni ’80, la pallavolo, pur essendo
stata inventata proprio negli “States” nel 1895 dal Professor William Morgan, è
sport ben poco conosciuto dalla maggior parte degli sportivi americani, che
invece impazziscono letteralmente per il football americano, l’hockey su
ghiaccio, il basket e il baseball, sport che a differenza del volley, hanno invece
veri e propri campionati professionistici. La pallavolo negli Stati Uniti in
quegli anni si gioca soprattutto in spiaggia, con il Beach Volley, mentre il
volley indoor viene praticato essenzialmente nei colleges e principalmente in
quelli californiani. Questo è uno dei motivi per cui la nazionale statunitense ha
raggranellato modesti risultati a livello internazionale. Un nono posto alle Olimpiadi
di Tokyo 1964 e un settimo posto nell’edizione successiva, quella svoltasi a Città
del Messico. Analoghi risultati i pallavolisti statunitensi hanno raccolto nelle
varie edizioni dei Campionati del Mondo, con un deludentissimo tredicesimo
posto nella rassegna iridata di Argentina 1982.
E’ difficile
poter pensare ad una repentina inversione di tendenza, ma in terra statunitense
c’è un problema, anzi, ce ne sono due. Il primo è di ordine sportivo – culturale:
il modo di intendere lo sport degli americani e degli anglosassoni in generale
si basa su una narrazione epica, eroica, ma soprattutto sui concetti di competizione
e del “riuscire”. In una società come quella statunitense, dove si compete dal
primo all’ultimo giorno di vita, non è nemmeno ipotizzabile un risultato
negativo alle Olimpiadi organizzate dalla propria nazione e nell’estate del
1984 saranno proprio di Stati Uniti d’America a ospitare a Los Angeles le XX
Olimpiadi. Il secondo problema ha un’origine “politica”. Nel 1981 a Washington
è stato eletto come 40° presidente della nazione Ronald Wilson Reagan che ha
impostato la propria politica estera sulla sfida in tutti i campi all'Unione
Sovietica, storico avversario della Guerra Fredda. E dal momento che a livello
pallavolistico è l’Unione Sovietica che domina le scene, bisogna trovare un
modo non solo per sfidarla, ma per batterla.
La federazione
USA si riunisce per analizzare il problema e per capire se esiste una strada
per creare una nazionale di pallavolo competitiva. Non essendoci però negli
States un campionato professionistico, la questione non è di facile soluzione.
I Dirigenti Federali statunitensi sono però unanimi su un punto: il primo
mattone su cui costruire la nuova casa deve essere quello di ingaggiare un
coach di primo livello. La scelta cade su Doug Beal, professore universitario
nato a Cleveland, nell'Ohio, il 4 marzo 1947, ex buon giocatore della nazionale
a stelle e strisce che ha conseguito un master in Educazione presso la Bowling
Green University, un Dottorato in fisiologia dell'esercizio alla Ohio State
University e un Dottorato in Scienze Umane presso lo Springfield College. Beal
ha idee molto chiare e per accettare l’incarico pone ai propri dirigenti una
serie di condizioni, prima fra tutte quella inerente alla logistica. Impone
alla federazione USA la costituzione di un centro tecnico di addestramento
federale, che dovrà diventare sede fissa di collegiale dove i migliori atleti americani
si alleneranno ai suoi ordini in maniera stabile e continuativa, dodici mesi all’anno.
La richiesta viene accolta e la sede della struttura viene individuata
inizialmente a Dayton, in Ohio, ma nel 1981 viene traferita in California, e
precisamente a San Diego, considerato che la maggior parte degli atleti
statunitensi di interesse nazionale, proviene e risiede in quello stato. Ai
suoi ordini ci sono un manipolo di giovani pallavolisti i cui nomi sono
sconosciuti al grande pubblico: Karch Kiraly, Aldis Berzins, Dusty Dvorak,
Steve Timmons, Pat Powers, Craig Buck, sono solo alcuni di essi. Un gruppo di
atleti che nel tempo si riveleranno veri e propri campioni e leader in grado di
costruire uno dei team più vincenti della storia della pallavolo moderna
Il tecnico ha
carta bianca dalla propria federazione, e in questo vero e proprio centro
sperimentale ha modo di mettere alla prova e collaudare le sue idee
assolutamente innovative per la pallavolo di quegli anni, che trasformeranno il
modo di allenare e di giocare la pallavolo. Tra tutte le sue teorie, il
concetto più innovativo è quello della “specializzazione nei ruoli”, in un
epoca in cui in tutta Europa ci si allena e si gioca sulla base del concetto
che “tutti devono saper fare tutto“. Questa nuova concezione, apparentemente di
poco conto, cambierà faccia per sempre alla pallavolo da ogni punto di vista:
metodologico, fisico, tecnico, tattico e motivazionale. Dal punto di vista
metodologico la prima grande intuizione di Beal è stata quella di partire
dall’essenza dello sport pallavolo, e considerato che il volley è uno sport di
situazione, impronta il lavoro sul concetto di allenare sempre il più possibile
in situazioni che ricalchino quelle di gioco. Accantona le classiche
esercitazioni analitiche costituite da ore e ore di palleggio, bagher, e tutti gli
altri fondamentali che venivano allenati singolarmente; tali esercitazioni rappresentavano
il cuore dell’addestramento tecnico in tutti i sistemi di allenamento di quegli
anni.
Sottopone i suoi
atleti a due - tre sedute di allenamento giornaliero (in Italia in quell’epoca
si lavorava con una sola seduta di allenamento giornaliera) e al fine di mantenere
quei ritmi senza incorrere in infortuni, è convinto che i giocatori debbano essere
super corazzati dal punto di vista fisico, ed inserisce quindi quotidianamente
il lavoro in sala pesi. Un tipo di attività che fino a quell’epoca nessun
tecnico aveva utilizzato con continuità, andando quindi a stravolgere tutti i protocolli
di lavoro fisico adottati nella preparazione dei pallavolisti.
Dal punto di
vista tecnico - tattico, ha in mente una vera e propria rivoluzione copernicana,
un sistema di ricezione della battuta avversaria costituito da soli due uomini – i due schiacciatori di posto quattro – che si devono occupare di ricevere a tutto campo,
sei rotazioni su sei. Per poter far questo ha bisogno di due vere e proprie macchine
da ricezione. Una ce l’ha, e si chiama Aldis Berzins, universale di 188
centimetri, big della squadra di pallavolo della Ohio State University, ma ne
deve trovare un’altra. Tra gli uomini da lui allenati c’è un ragazzo con un
cognome non propriamente da yankee. Lui americano lo è, essendo nato a Jackson nel Minnesota nel 1960, ma non lo sono i suoi
genitori, emigrati dall’Ungheria verso gli Stati Uniti nel 1956, durante la
rivoluzione in atto nel proprio paese. Il ragazzo si chiama Karch Kiraly, e
sentiremo a lungo parlare di lui. Karch proviene dall'University of California
di Los Angeles, la famosa UCLA, con la quale ha vinto per 3 volte il titolo
universitario tra il 1979 e il 1982, vincendo complessivamente 129 partite e
perdendone solo 5. Nel suo college alterna i ruoli del palleggiatore e dello
schiacciatore, ma Doug Beal individuando in lui il miglior uomo possibile da
affiancare a Berzins, gli cambia definitivamente ruolo trasformandolo in schiacciatore-ricevitore.
Kiraly non solo ricopre questo preziosissimo ruolo ma diventa il giocatore
simbolo sia della nazionale USA che di un’intera generazione di pallavolisti. Atleta
tenace, super competitivo ma altrettanto corretto con gli avversari sia in
campo che fuori, Kiraly è dotato di doti
tecniche straordinarie sia nei fondamentali di seconda linea (ricezione e
difesa) che in quelli di attacco dove i suoi 188 centimetri, una statura non
proprio da gigante per un pallavolista, sono ampiamente compensati da grandi
doti di salto, ma ancor più da una straordinaria manualità nell’esecuzione dei
colpi d’attacco, che lo ha consacreranno come il miglior schiacciatore di tutti
i tempi nella tecnica del mani e fuori contro il muro avversario.
Grazie alle
capacità di Berzins e Kiraly nel fondamentale della ricezione il gioco studiato
a tavolino da Beal e sperimentato in migliaia di ore di allenamento consente ai
due centrali Buck e Timmons e ancor di più a Pat Power, attaccante potentissimo
schierato come opposto, di concentrarsi esclusivamente sul mettere a terra i
palloni forniti loro da Dusty Dvorak. Quest’ultimo è un palleggiatore non
bellissimo da vedere a causa un tocco di palla piuttosto trattenuto, ma un vero
e proprio computer dal punto di vista tattico, nonché alzatore di straordinaria
precisione.
Altro elemento
determinante nell’idea di sport e di pallavolo del tecnico di Cleveland è
l’aspetto morale e motivazionale. Beal imposta la squadra sulla mentalità
vincente, quella che prevede concetti quali il non mollare mai, il provarci
sempre, e la riluttanza totale verso l’errore, elemento che l’atleta in
allenamento ancora prima che in partita, non deve né tollerare né sopportare. La
volontà, la tenacia, il combattere sempre, sono gli elementi che per Doug Beal
fanno di un buon giocatore un campione e di una buona squadra un team vincente.
Da un punto di vista di tecnica pallavolistica, non esiste miglior fondamentale
che la difesa per incarnare questi concetti. Ecco che per il “Vangelo secondo
Beal” non esiste nessuna palla impossibile da difendere. Bisogna provarci
sempre, senza chiedersi se quella palla è difendibile o meno. Per novantanove
volte la palla cadrà a terra, ma arriverà la centesima volta in cui quella
palla sarà difesa e sarà proprio grazie a quella palla tenuta in gioco che la
squadra potrò ricostruire il punto della vittoria.
Oltre che con il
lavoro in palestra, Doug vuole trovare un'altra modalità per fare assimilare questi
concetti ai suoi uomini, perché dentro di sé è convinto che più di ogni altro
aspetto, sia proprio quella la chiave per fare della propria squadra il team
più forte di tutti. Durante i suoi studi in fisiologia ha imparato che, più della
fatica fisica, quello che fa crollare gli individui, sportivi compresi, è l’aspetto
psichico, che può essere facilmente indebolito a causa di difficoltà esterne, incertezza
del successo o mancanza di autostima. E visto che il cervello è un muscolo, il
professore lo vuol allenare. E tanto per cambiare si inventa qualcosa di mai
visto fino ad allora. E’ convinto che portare il gruppo in alta montagna, in un
ambiente costituito da neve, temperature di meno venti gradi centigradi, con a
disposizione solo zaini, tende e qualche scatoletta con cui cibarsi, sia il
modo migliore per stimolare e introiettare una serie di concetti per lui
fondamentali quali il mai rinunciare alla lotta, mai pensare di avere fatto
tutto il possibile, mai arrendersi, avere sempre la convinzione che grazie
all’agire e fare, alla fine le cose andranno bene. Porta quindi il suo team per
due settimane sulle Montagne Rocciose, le spettacolari catene montuose situate
nella parte occidentale del Nord America, tra gli Stati Uniti d'America e il Canada.
Non gli regala una gita premio, ma li obbliga ad un vero e proprio periodo di
sopravvivenza estrema, spogliandoli da tutti i confort e dagli agi quotidiani
con l’intento di metterli alla prova sfidando sé stessi e i propri limiti, al
fine di far emergere la loro forza di volontà, il loro coraggio e la loro
tenacia. E questa esperienza, rappresenterà la ciliegina sulla torta del suo
progetto, un ulteriore e decisivo elemento in grado di forgiare non solo grandi
campioni, ma anche di cementare e rendere granitico il gruppo.
Doug Beal infine,
introduce un altro elemento di assoluta novità, l’uso sistematico delle
statistiche. Lo mutua dalle altre federazioni professionistiche americane, in
primis football americano, basket e baseball, che già da alcuni anni utilizzano
il supporto statistico. Ma ancor prima che per lo studio degli avversari, partendo
dall’esigenza di decretare dei parametri oggettivi su cui valutare la
prestazione dei singoli atleti e dell’intera squadra, utilizza i dati
statistici per la crescita costante della qualità del suo team, creando nel
gruppo ulteriori stimoli motivazionali sia individuali che di gruppo.
La squadra oltre
che allenarsi gioca una serie di incontri amichevoli in cui fa intravedere che
grazie alle metodologie apportate dal suo rivoluzionario allenatore è in grado
di mettere in campo una pallavolo di primissimo livello. Vincere i giochi
olimpici pare ai più un’impresa impossibile ma lui, il professor Doug Beal,
quelle olimpiadi le vincerà. Porta con sè nel villaggio olimpico il gruppo di fedelissimi
atleti che gli oltre due anni di durissimo lavoro nelle palestre della
California e i ventiquattro successi consecutivi, sia pure in gare amichevoli, hanno
forgiato e reso consapevoli della propria forza. Dusty Dvorak, Dave Saunders,
Steve Salmons, Paul Sunderland, Rich Duwelius, Steve Timmons, Craig Buck, Marc
Waldie, Chris Marlowe, Aldis Berzins, Pat Powers, e Karch Kiraly sono i dodici
yankee a disposizione del tecnico per la competizione olimpica. Il sestetto
base prevede Dvorak in regia, Powers, uno spilungone stravagante e strafottente
a martellare da ogni zona del campo, Karch Kiraly e Aldis
Berzins a sostenere l’asse ricezione – difesa, nonché da efficacissimi attaccanti
di posto quattro, Timmons e il gigante Buck al centro della rete, come vere e
proprie saracinesche nel fondamentale del muro e straordinari attaccanti di
primo tempo. Per il suo modello di pallavolo ogni giocatore non deve saper far
bene tutto, ma deve però essere il migliore in una cosa. Un solo obiettivo, ma
su quello dovrà essere il numero uno.
I giochi della
XXIII Olimpiade vengono boicottati da tutte le nazioni appartenenti al blocco
sovietico come ripicca al boicottaggio americano alle precedenti Olimpiadi di
Mosca ’80. Il torneo di pallavolo perde quindi alcune delle principali squadre
nazionali e soprattutto quella dell’URSS, grande dominatrice delle scene
internazionali, risultando leggermente sminuito in termini di valori tecnici
assoluti. Tutti danno il Brasile come squadra da
battere ma Doug Beal e i suoi dodici scudieri sono certi che saranno loro a
mettersi al collo la medaglia d’oro al termine del torneo. Gli americani esordiscono
il 29 luglio nel migliore dei modi, superando con un convincente 3-1 la
nazionale argentina e bissano il successo, questa volta per 3-0, soltanto quarantottore
dopo contro la modesta Tunisia. La terza gara del girone gli USA la giocano
contro la Corea del Sud di Kim Ho Chul e anche da questa gara escono vittoriosi
per 3-0. Ma il 6 agosto arriva la doccia fredda. I brasiliani guidati da Xando
con un sestetto stellare che comprende campioni del calibro di Montanaro, Wiliam
Da Silva e Renan Dal Zotto annientano Kiraly e compagni con un netto 3-0, vincendo
l’ultimo set addirittura per 15-2. A causa di quella dura e cocente sconfitta
gli americani chiudono il girone al secondo posto, ma grazie agli insegnamenti impartiti
loro da Doug Beal, alle migliaia di ore di lavoro in palestra, alle settimane passate
sulle Montagne Rocciose, sanno che non bisogna arrendersi mai. Sono consapevoli non solo di potercela fare
ma soprattutto di essere i più forti.
La semifinale li
vede di fronte alla nazionale canadese, e non c’è storia. Troppo forti gli
uomini di Beal che chiudono i conti con i nord americani con un netto 3-0 regalandosi
non solo la possibilità di giocarsi la medaglia d’oro, ma di vendicare l’umiliazione
subita solo qualche giorno prima ad opera proprio dei fortissimi verdeoro
brasiliani. Il tecnico e la squadra preparano la partita alla perfezione mettendo
in mostra sul parquet della “Long Beach Arena” una prestazione perfetta in
tutti i fondamentali. Quella finale non ha storia. Kiraly, l’atleta più giovane
della squadra gioca una partita mostruosa e il Brasile viene sconfitto in soli
tre set: 15-6, 15-6, 15-7. Per la prima volta la nazionale statunitense è campione
olimpica di pallavolo. La medaglia d’oro di Los Angeles ’84 è per gli uomini di
Doug Beal.
Nel 1985 Doug
Beal, in cerca di nuovi stimoli e di nuove sfide, si dimette dall’incarico di
Head Coach della squadra nazionale e viene eletto dalla propria federazione
Direttore tecnico e organizzativo del National Team Center e quindi dell’intero movimento pallavolistico
statunitense. Ogni maestro ha sempre un allievo prediletto, e nel caso di Doug questi
risponde al nome di Marvin Alex Dunphy, un allenatore di pallavolo che dopo
essersi laureato alla Pepperdine University, aver conseguito un master presso
la University of Southern California e completato il dottorato alla Brigham
Young University si è affermato come Volleyball Coach alla Pepperdine
University, conquistando ben cinque campionati NCAA Division. Doug gli offre la
panchina della nazionale campione olimpica, consegnandogli anche l’onore e
l’onere di sfidare e battere ai mondiali di Parigi ’86, il colosso sovietico che
da oltre dieci anni sta dominando il mondo.
Il successo nel
torneo olimpico ha infuso al gruppo ulteriore fiducia e autostima e il nuovo
coach Dunpy, dimostrando modestia e saggezza, non modifica nulla dei vincenti sistemi
ideati da Beal. Con la nuova conduzione tecnica la nazionale statunitense vince
a mani basse la World Cup 1985 in Giappone con sette successi su sette gare
disputate, rifilando un 3-2 all’Unione Sovietica al termine di una delle più
belle e combattute partite della storia della pallavolo mondiale con i parziali
di 11-15, 19-17, 15-9, 9-15, 15-12. Questo successo contro la squadra dell’URSS
ha un doppio valore dal momento che l’assenza di questi ultimi alle Olimpiadi
di Los Angeles aveva leggermente annacquato il successo del team statunitense.
I Mondiali di
Francia ’86 sono alle porte e gli Stati Uniti si presentano a questo
appuntamento in programma dal 25 settembre al 2 ottobre con una squadra leggermente
rinnovata. I dodici convocati da Dunphy sono Dusty Dvorak, David Saunders,
Steven Salmons, Robert Ctvrtlik, Doug Partie, Steve Timmons, Craig Buck, Jeff Stork,
Eric Sato, Patrick Powers e Karch Kiraly . Lo zoccolo duro del gruppo campione
olimpico è rimasto intatto ed è stato integrato con l’innesto di un nuovo
alzatore, Jeff Stork, del centrale Doug Partie e di un formidabile
schiacciatore - ricevitore con un cognome, Ctvrtlik, decisamente difficile da
pronunciare. Questa volta però i sovietici ci sono, e hanno una gran voglia di
ristabilire le gerarchie mondiali a loro vantaggio.
Gli USA iniziano
la massima manifestazione mondiale nel migliore dei modi mietendo un successo
dietro l’altro: Giappone (3-1), Grecia (3-0), Argentina (3-0), mettendo in
cascina la qualificazione alla fase successiva nella quale vengono abbinati
alle più forti nazionali al mondo: Unione Sovietica, Cuba, Argentina, Polonia e
Giappone. Kiraly e compagni “rullano” nel vero senso della parola sia Polonia
(3-0) che Cuba (3-1). La terza gara del girone, in programma il giorno 1
ottobre è quella che prevede lo scontro con i nemici sovietici, squadra che, esattamente
come quella statunitense, fino a quel giorno non ha sbagliato un colpo. Chi
vince si classifica al primo posto nel girone e incontrerà la Bulgaria in
semifinale. A spuntarla è l’URSS, con un 3-1 abbastanza netto (15-10, 15-9,
9-15, 15-12). L’impressione è quella che, ancora una volta, saranno i maestri
dell’Est Europeo a consacrarsi come i più forti del mondo. Gli unici a non
pensarla così sono i dodici yankee agli ordini di Dunphy. Loro non solo sanno
di essere i migliori, ma sono certi che quel campionato mondiale lo vinceranno
loro.
Le due
semifinali, URSS – Bulgaria e USA – Brasile si giocano il 3 ottobre e non hanno
storia, concludendosi entrambe per 3-0 a favore di URSS e USA, troppo superiori
rispetto agli avversari. La finale è prevista quarantottore dopo, il 5 ottobre all’Omnisport
Arena di Parigi-Bercy, avveniristico e polifunzionale impianto inaugurato
soltanto due anni prima, ed è una partita che resterà per sempre nella storia della
pallavolo mondiale. Gennadiy Parshin, tecnico che nel 1985 ha sostituito Platanov
sulla panchina della nazionale sovietica, schiera una squadra zeppa di veri e
propri fuoriclasse: Zaitsev, Savin, Pančenko, Antonov, Selivanov, Schurichin,
Losev, Sorokolet, Beleveich, Vilde, Sapega e Runov sono i dodici che la
compongono. La squadra parte in quarta, aggiudicandosi il primo set per 15-12 e
portandosi in vantaggio per 1-0. Ma nella testa degli americani è fortissima la
voglia di dimostrare che la medaglia d’oro conquistata due anni prima alle
Olimpiadi di Los Angeles non sia frutto dell’assenza dei sovietici, e con una
reazione straordinaria si aggiudicano i tre successivi parziali per 15-11, 15-8
e 15-12. Gli Stati Uniti sono per la prima volta campioni del mondo, strappando
dalle mani dell’orso sovietico lo scettro che deteneva da otto anni.
L’appetito vien
mangiando e la possibilità di bissare il successo olimpico del 1984 non è
lontana dal momento che nel 1988 in Corea del Sud, e precisamente a Seul, è
prevista la XXIV edizione dei Giochi Olimpici. Un’edizione che verrà ricordata
come quella della “riconciliazione”, dal momento che tutte le nazioni tornano
finalmente a competere dopo che le due edizioni sono andate in scena in formato
ridotto a causa del boicottaggio americano e sovietico. Coach Dunphy guida un
gruppo di giocatori composto da Troy Tanner, Dave Saunders, Jon Root, Bob
Ctvrtlik, Doug Partie, Steve Timmons, Craig Buck, Scott Fortune, Ricci Luyties,
Jeff Stork, Eric Sato, e l’inossidabile, sua maestà, Karch Kiraly. Il sestetto
base è leggermente rinnovato e vede la presenza di Jeff Stork che ha preso il
posto in regia di Dusty Dvorak. Stork, nato a Longview nel 1960 è un ex
“beacher” mancino ed è l’alzatore con cui Dunphy ha vinto più di un titolo alla
Pepperdine University. Possiede un’incredibile velocità di uscita della palla
dalle mani ed inoltre, sfruttando sia i suoi centonovanta centimetri che una
particolare abilità nel fondamentale dell’attacco, è in grado di colpire
direttamente da secondo tocco come il migliore degli schiacciatori ogni palla
gli arrivi dalla propria ricezione alta e vicino a rete, complicando e non di
poco la vita ai muri e alle difese avversarie. Kiraly e Bob Ctvrtlik sono gli schiacciatori
- ricevitori, perfetti in ricezione e difesa ed efficacissimi in prima linea
con i loro colpi d’attacco portati prevalentemente non verso terra ma sulle
mani del muro avversario, e il veterano Craig Buck compone la linea dei
centrali assieme al ventiseienne Doug Partie. Nel ruolo di opposto, lasciato
libero dall’addio alla nazionale di Pat Powers, Dunphy con un’intuizione
geniale si è inventato l’ex centrale Steve Timmons che si è dimostrato
attaccante di valore mondiale valorizzato al massimo dalle traiettorie d’alzata
super veloci del palleggiatore Jeff Stork.
Gli USA sono
inseriti in un girone che prevede la presenza di Argentina, Francia, Olanda,
Tunisia e Giappone, in cui ottengono cinque vittorie su altrettanti incontri
giocati, palesando qualche difficoltà solo contro l’ottima nazionale argentina
del duo Waldo Kantor – Hugo Conte, gara in cui riesce a prevalere solo dopo
cinque combattutissimi set (11-15, 11-15, 15-4, 17-15, 15-7), rimontando da due
set a zero. Chiude quindi al primo posto il girone e, ancora una volta, sarà la
nazionale brasiliana con cui si era sfidata a Los Angeles per la medagli d’oro
a contenderli il pass per la finale. La gara è letteralmente a senso unico. Il
primo set si chiude con un 15-3 a favore del team di Dunphy che annichilisce i
frastornati verdeoro. Anche il secondo e il terzo set non hanno storia: 15-5 e
15-11 sono i due parziali con cui gli statunitensi liquidano la pratica Brasile.
Leggermente più combattuta l’altra semifinale che vede di fronte all’Unione
Sovietica un’ottima argentina. L’URSS si aggiudica la contesa per 3-0 (15-11,
17-15, 15-8 i parziali) ma i sudamericani, giocando una pallavolo velocissima
magistralmente orchestrata dal folletto Valdo Kantor, nel primo e ancor di più nel
secondo set (terminato ai vantaggi) danno filo da torcere agli uomini di Paršin.
La sera del 2
ottobre 1988 va quindi in scena l’atto conclusivo di questa grande
manifestazione. E a sfidarsi, proprio come nella finale di Parigi 1986, saranno
proprio USA e URSS. In casa sovietica quello che
viene all’unanimità considerato il centrale più forte di tutti i tempi, il
monumentale Alexander Savin, ha dato addio alla nazionale, ma Jurij Pancenko, Andrej Kuznetov, Vjaceslav Zajtev, Igor Runov, Vladimir Skurichin, Eugenij Krasilnikov,
Raimond Vilde, Valerij Losev, Jurij Sapega, Aleksandr
Sorokolet, Jaroslav Antonov, Youri Tcherednik,
guidati in panchina dal CT Gennadij Parsin, rappresentano una squadra comunque fortissima.
Il sestetto prevede Zajtev in palleggio, saltuariamente sostituito dal secondo
affidabilissimo alzatore Valerij Losev e il sia potente che tecnico mancino Jaroslav
Antonov schierato come opposto, in grado di attaccare con traiettorie
imprevedibili, cliente scomodissimo anche per i migliori muri e per le più
attente difese. Raimond Vilde e Igor'
Runov sono due centrali dal grande muro mentre il poco appariscente ma
efficientissimo Jurij Pancenko forma con Aleksandr Sorokolet, atleta di classe
sopraffina e dotato di una grande varietà di colpi d’attacco, una solidissima coppia
di schiacciatori di posto quattro. In panchina pronti a subentrare gli esperti Vladimir
Škurichin, Jurij Tcherednik, e due talentuosi giovani provenienti dalla
nazionale juniores, Andrej Kuznetov e Jurij Sapega. Una vera e propria
corazzata, difficilissima da abbattere.
Ma l’esito
finale del torneo di pallavolo maschile dei giochi della XXIV Olimpiade, si
rivela sostanzialmente una replica della finale del Campionato del Mondo di due
anni prima a Parigi. Lo squadrone sovietico conquista il primo set per 15-13 ma
poi lascia campo alla nazionale “a stelle e strisce” che con tre set perfetti (15-10,
15-4 e 15-8) non solo conquista il secondo oro
olimpico della sua storia ma completa quel quinquennio vincente che la
consacrerà come una delle squadre che hanno fatto la storia della pallavolo
mondiale.
Al termine dei
giochi asiatici tutti gli atleti più rappresentativi di quel magnifico team
decidono di dare addio alla maglia della propria nazionale, andando in cerca di
gloria e dollari nei campionati d’oltreoceano. La maggior parte di essi migra
in direzione del continente europeo e principalmente verso l’Italia, nazione in
cui in quegli anni si gioca il campionato più bello e più ricco del mondo.
Dvorak e Stork si danno il cambio al timone della Maxicono Parma conquistando
scudetti e manifestazioni internazionali per club, Pat Powers sceglie la strada
della di Torino andando a giocare nella Bistefani del Professor Silvano Prandi
mentre Karch Kiraly e Steve Timmons se ne vanno in riva all’adriatico
nell’incantevole Ravenna alla corte del D.S. Giuseppe Brusi e del patron Raul
Gardini. A Milano in casa Mediolanum arriva non solo lo schiacciatore Bob Ctvrtlik
ma niente po’ po’ di meno che il santone della panchina, quel Doug Beal da cui
tutto ebbe inizio. Il centralone Craig Buck transita prima a Spoleto per poi
arrivare a Padova, così come per l’altro centrale, quel Doug Partie che a
Modena conquisterà una Coppa Italia, uno scudetto e una Coppa dei Campioni.
Senza poi dimenticare altri grandi atleti statunitensi, anch’essi facenti parte
di quella generazione di fenomeni, quali Aldis Berzins, Dave Saunders, Jon
Root, Scott Fortune, transitati per i parquet dei nostri palazzi dello sport.
Tutti uomini che
con la loro preparazione, tecnica e personalità hanno contribuito non solo ad
ingrassare le bacheche delle nostre principali squadre di club ma anche e
soprattutto a far crescere l’intero movimento italiano e a favorire quel
processo di espansione e ascesa che negli anni ’80 ha rappresentato la pietra
angolare per i grandi successi nei seguenti anni ’90 della nazionale azzurra targata
Julio Velasco.
Filippo Vagli
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