martedì 19 maggio 2020

LA LEADERSHIP. Di Filippo Vagli




All’interno di ogni gruppo esiste un ruolo che si eleva al di sopra del ruolo degli altri componenti del gruppo stesso. Questo avviene grazie alle sue capacità di influenzare gli atteggiamenti e i comportamenti delle persone. Costui di norma è il leader, una figura di grande importanza nel mondo degli sport di squadra.

Sono stati svolti svariati studi al fine di individuare le caratteristiche, le qualità, gli attributi, le situazioni, che possono portare una persona del gruppo a vestire i panni del leader. In questo articolo vedremo le principali teorie riguardo la leadership e alcuni modi per poterla sviluppare.
Ogni gruppo ha la tendenza a riconoscere al suo interno delle funzioni di guida. Questa è la leadership vale a dire una funzione basata sull’influenza sociale che consiste nel condurre un gruppo nel conseguimento di un obiettivo.
La funzione di leadership generalmente viene esercitata da un membro del gruppo, il leader, che facilita il funzionamento del gruppo in modo coordinato e produttivo.
Sui leader c’è tantissima letteratura e tante idee, a volte anche un po’ confuse. In questo breve articolo cercheremo sinteticamente di valutare le caratteristiche più importanti riguardo alla leadership.
Un leader può essere:
-          Efficace: deve essere in grado di stabilire obiettivi e condurre il gruppo al conseguimento. Questo è un criterio oggettivo
-          Buono: questo è un criterio più soggettivo, basato su valutazioni individuali. Noi possiamo avere la percezione che il leader sia una brava persona, che sia buono, una persona che ci piace come si comporta.
La tradizione vuole che il leader sia un essere umano con doti straordinarie; carisma, capacità di conduzione, ma la ricerca non sostiene questi concetti, dal momento che non ci sono prove che esista un attitudine naturale al comando e alla leadership, cioè che si nasca leader, e neppure sono stati identificati una serie di tratti di personalità tipici dei leader.
Si è arrivati a definire che le dimensioni generali della personalità più correlate alla personalità sono:
-          Estroversione
-          Apertura mentale
-          Coscienziosità
Altre spiegazioni che possiamo adottare per parlare di leader:
Teorie della contingenza: vale a dire che la leadership sia legata alle situazioni. Ci saranno quindi:
-          Leader più orientati al compito: puntano al risultato e sono poco interessati alle dinamiche del gruppo. Questi leader saranno più adatti in situazioni in cui il controllo della situazione è molto difficile o molto facile
-          Leader orientati alla relazione: puntano più alla qualità delle relazioni nel gruppo (leader emotivi). Questi leader sono preferibili quando il controllo della situazione è intermedio.
Non ce ne è uno dei due migliore, dipende dalla situazione. 
Controllo della situazione:
-          Alto: buone relazioni con il leader, compiti ben definiti, autorevolezza riconosciuta al leader. In queste situazioni conviene l’orientamento al compito
-          Basso: le relazioni con il leader sono precarie, i compiti sono mal definiti, non è riconosciuta una grande autorità al leader, è più efficacie un orientamento alla relazione
Teoria del percorso-obiettivo: è sempre una teoria delle contingenze ma ha anche un elemento transazionale che significa: che ci guadagna il leader dal gruppo e che ci guadagna il gruppo dal leader? E quindi la leadership vista come una sorta di transazione, una negoziazione, come una trattativa fra un individuo e il gruppo al quale appartiene. Secondo questa teoria dipende da come il leader si dedica ai bisogni del gruppo; si potrà dedicare a:
-          Bisogni di strutturazione: sono bisogni connesse all’attività e ai compiti, quando i membri del gruppo non hanno chiarezza sugli obiettivi o sui modi di perseguirli (il gruppo non sa bene cosa deve fare). In questi casi il gruppo avrà bisogno di qualcuno che li orienti all’obiettivo.
-          Bisogni di cura: in altri momenti il gruppo avrà bisogno di essere motivato nei confronti di un compito; il gruppo in questo caso sa cosa deve fare ma è scoraggiato
E quindi il leader si dovrà adattare ai diversi bisogni del gruppo nelle varie situazioni
Le teorie transazionali come già detto presuppongono che via sia uno scambio (una transazione) tra il leader e i gregari e ne vediamo altre due:
-          Teoria del credito personale: i leader hanno bisogno del sostegno e del “credito” del gruppo. Più il gruppo sostiene il leader più questi ha potere e margine di azione
-          Teoria dello scambio leader-gregario: conta la qualità della relazione tra leader e gregari. Secondo questa teoria ad esempio fanno bene i giapponesi che il venerdì quando finisce la settimana lavorativa il capo porta a cena tutti quelli che lavorano per lui; è sempre il capo che paga la cena e paga anche da bere e in quella serata si usa ubbriacarsi, escono con il loro capo e si ubbriacano con il loro capo. Quel tipo di confidenza, quel bere insieme è un di più, che cura la qualità della relazione tra leader e gregario. Da noi si pensa che non bisogna dare confidenza ai gregari mentre p un errore, bisognerebbe tenere presente questa teoria.
Parliamo ora di un altro tipo di leadership: la Leadership Trasformazionale: dal leader ci si aspetta anche la capacità di portare il gruppo ad un cambiamento, adottando nuovi obiettivi. La Leadership carismatica è infatti fondata sulla percezione del gruppo che il leader sia un innovatore, lungimirante e dotato di grandi capacità.
Il gruppo si aspetta dal leader che debba essere speciale. Come fa il leader ad essere speciale? Esistono schemi di funzionamento dei leader in determinate situazioni (o prototipi) e i gruppi scelgono come leader le persone che sono coerenti con questi schemi. Se noi abbiamo un’idea di come deve essere un bravo manager noi sosterremo le persone che hanno quelle caratteristiche (Teoria di categorizzazione del leader)
Ancora più interessante è considerare che i leader vengono selezionati come “prototipi” delle caratteristiche del gruppo, il gruppo vi si identifica, specie quando serve un sostegno all’identità (Teoria dell’identità sociale della leadership). E quindi stiamo dicendo che il leader è una creazione del gruppo. Il carisma del leader è un attributo che il gruppo riversa su di lui; diventiamo carismatici se qualcuno crede nel nostro carisma, non è un dono di natura, è un dono che ci fa il gruppo, e il gruppo ci fa questo dono perché gli serve qualcuno che possiede queste caratteristiche.
La leadership è influenzata dalla Salienza del gruppo: la salienza aumenta con l’identificazione, cioè più un gruppo ha una rilevanza più abbiamo effetti sulla leadership, e di conseguenza la prototipicità del leader ne rafforza l’efficacia percepita. Il leader prototipici, sono più influenti degli altri perché:
-          Sono considerati influenti
-          Sono apprezzati e popolari
-          Sono fortemente identificati con il gruppo anche nei destini (come il capitano della nave che se affonda la nave è pronto ad affondare)
-          Acquisiscono carisma grazie ai membri del gruppo
Un leader per mantenere agli occhi del gruppo questi requisiti di essere speciale e carismatico deve garantire l’equità procedurale vale a dire il modo in cui vengono svolti i compiti e distribuite le risorse. Quindi il leader deve essere una persona giusta ed equa e in particolare è importante non tanto che dia a tutti in eguale misura ma che segua procedure corrette. Noi accetteremo che il leader dia qualcosa di più a uno e qualcosa di meno ad un altro se il modo in cui l’ha fato è corretto. L’equità distributiva cioè che le risorse in sé siano distribuite equamente conta meno, l’importante è che il leader sia giusto nelle procedure


sabato 16 maggio 2020

LO SVILUPPO DEL RICEVITORE. Di Alessandro Fammelume


Progressione Didattica di lavoro su un fondamentale , quello della Ricezione , che mi sta particolarmente a cuore , studiata per crescere un ricevitore di alto livello.
Cercherò quindi di mettere a disposizione di tutti voi una esperienza di ormai quasi 40 anni , spesi cercando (e spesso riuscendo) di costruire giocatori e portarli al più alto livello possibile.

LA RICEZIONE NON E’ PER TUTTI !!!!
Motivazioni di tipo fisico e morfologico, unite a motivazioni di tipo psicologico e inerenti alla personalità, ne fanno un fondamentale estremamente selettivo e che necessita di un lavoro profondo di specializzazione.
Il lavoro di riconoscimento e di perfezionamento del ricevitore, costituisce la seconda attività di specializzazione che ci troviamo ad affrontare nella pallavolo, riferendoci alla creazione di giocatori di alto livello tecnico, dopo quella che ci permette di riconoscere e crescere il palleggiatore.
Questa attività si compone di due fasi:
1. Riconoscimento delle qualità fisiche e morfologiche, nonché delle qualità psicologiche e di personalità del giovane atleta che abbiamo di fronte
2. Lavoro di sviluppo del fondamentale sia sotto l’aspetto tecnico che tattico (ricezione di squadra)

CARATTERISTICHE FISICHE E MORFOLOGICHE
• L’esecuzione di una ottima ricezione dipende dalla possibilità di effettuare un buon bagher, che significa avere la capacità di costituire un piano di rimbalzo più piatto e uniforme possibile (gli americani che sono i veri maestri in questo fondamentale chiamano il piano di rimbalzo “platform” per rendere l’idea); nella realizzazione del gesto saranno importanti:
 il modo in cui si agganciano le mani
 la capacità di estendere il polso verso il basso
 la spinta delle spalle avanti che dipende da una buona mobilità
tutte queste componenti del gesto devono essere realizzate con naturalezza e senza forzature eccessive; esse dipendono in larga parte dalla struttura morfologica e possono essere modificate solo parzialmente con l’allenamento.
• L’esecuzione di una buona ricezione dipende anche dalla possibilità di spostarsi prontamente e soprattutto in anticipo; per poter valutare anticipatamente la traiettoria della battuta occorre essere in grado di stabilirne la profondità e questo dipende appunto da una capacità visiva ottimale; spostarsi solo un istante in ritardo può far pregiudicare l’esito finale della ricezione, facendo perdere il punto; è possibile correggere i difetti visivi con le lenti o con gli occhiali, ma non avremo mai una capacità visiva completa.

CARATTERISTICHE PSICO - CARATTERIALI
• Dal punto di vista caratteriale è importante che il giocatore abbia una buona leadership ed un buon carisma nei confronti dei propri compagni che si devono fidare del loro ricevitore; deve inoltre avere una capacità di relazionarsi e di collaborare con gli altri per chiamare la palla ed aiutare verbalmente i suoi compagni di ricezione, nonché una capacità di organizzare e dirigere la ricezione (soprattutto il Libero nell’alto livello)
• Dal punto di vista della personalità è necessario che il giocatore abbia una capacità ben spiccata di andare oltre l’errore, nel suo caso evidentissimo e pesante sul morale, e di concentrarsi sempre sull’azione successiva; inoltre dovrà essere capace di ignorare tutto quello che succede in campo e nella palestra per concentrarsi invece sulla palla e sul battitore fin dal momento che questi prende la palla in mano, concentrandosi e ripassando mentalmente esclusivamente la tecnica che andrà ad eseguire
• Dal punto di vista mentale dovrà essere forte e convinto che la sua tecnica è quella giusta, senza cercare scappatoie e strade alternative che genererebbero in lui soltanto confusione; nel dettaglio deve sempre assumere un atteggiamento aggressivo verso la palla senza subirla ed essere colpito, ma cercando di guidare la palla stessa con l’altezza e la profondità rispetto alla rete che si ritengono più adeguate

Per valutare un giocatore in tutti questi aspetti sono necessari diversi anni di pratica in palestra, per cui arriveremo ad introdurre il lavoro vero e proprio di specializzazione e di perfezionamento del ricevitore all’inizio della Under 16 (14/15 anni) per i maschi e un anno prima (13/14 anni) per le femmine, fermo restando che se abbiamo di fronte un “fenomeno” di precocità in possesso di tutti i requisiti già prima di queste età non dovremo certo frenarlo, ma cercare anzi di agevolare ed enfatizzare queste sue capacità tecniche fin da subito.

PROGRESSIONE DIDATTICA PER LO SVILUPPO DEL RICEVITORE
La seguente progressione didattica è frutto della mia esperienza con i settori giovanili di alto livello e si riferisce ad un cammino completo di un giovane pallavolista che si sviluppa nell’arco di 5/6 anni attraverso dei lavori progressivi specifici per ogni età che vanno svolti in sequenza, senza anticipare o affrettare.
Tutte le seguenti indicazioni di tipo didattico sono valide sia per maschi che per femmine, con l’adattamento di anticipare di un anno per quanto riguarda il femminile, sempre tenendo presente, come già detto in precedenza, che se abbiamo di fronte dei “fenomeni” quanto a precocità e capacità tecnica dobbiamo assecondare le loro qualità e non frenarli per aspettare che anche gli altri arrivino al loro livello.
Importante considerare che la ricezione è forse l’unico fondamentale della Pallavolo che non possiamo perfezionare e migliorare durante le esercitazioni di gioco, per cui dovremo riservare dei tempi esclusivi per la esecuzione di esercitazioni specifiche che serviranno a fissare al meglio il gesto tecnico, dando così maggiore sicurezza ai nostri ricevitori.
Importantissimo infine allenare la ricezione con situazioni di battuta (al punto che si dice che una squadra scarsa al servizio sarà poco abile anche nella ricezione) nelle quali dovremo prevedere anche degli obiettivi per i battitori (controllo, precisione, variazioni, punti da realizzare) per evitare che il livello medio della battuta scenda oppure che si alzi oltre il consentito il numero degli errori.
Evitiamo quindi assolutamente quella assurda ma purtroppo frequentissima consuetudine di lasciare il lavoro sulla ricezione per l’ultimo quarto d’ora dell’allenamento, in cui solitamente abbiamo giocatori stanchi, distratti e poco motivati, ma inseriamo l’esercizio di ricezione come esercitazione base all’inizio del lavoro tecnico, soprattutto se poi nel gioco andremo a lavorare su situazioni di Cambio Palla.

UNDER 13 / UNDER 14
Si inizia ovviamente dalla individuazione di coloro che, per i sopra citati motivi di costituzione fisica ( vista, mobilità delle spalle, piano di rimbalzo piatto ), sono più adatti a specializzarsi in questo fondamentale
In questa fase possiamo eseguire tutta una serie di lavori per lo sviluppo delle capacità coordinative e per la valutazione delle traiettorie attraverso l’utilizzo di giochini e esercizi a staffetta o a squadre che motivano e fanno divertire i ragazzi, ma che servono a creare nella fascia d’età giusta delle sensibilità che ci torneranno utili in seguito.
Quando lavoriamo sul bagher didattico, inseriamo anche il gesto del bagher laterale che sarebbe bene i ragazzi conoscessero da subito:
 LAVORI DI COORDINAZIONE E MOBILITA’ GENERALE
 LAVORI DI SENSIBILITA’ CON LA PALLA (lanci, prese in varie situazioni)
 LAVORI DI SPOSTAMENTO VELOCE ED OCCUPAZIONE DEGLI SPAZI
 ESECUZIONI FACILI PER FISSARE IL GESTO E LA POSIZIONE DELLE BRACCIA
 ESERCITAZIONI ALLA PARETE ANCHE CON BERSAGLI PER OTTENERE UNA ATTENZIONE SULLA PRECISIONE
 LAVORO PER VALUTARE LA TRAIETTORIA CON GRUPPI E CHIAMATA SU LANCI, OPPURE CON CERCHI PER ARRIVARE SOTTO LA PALLA

UNDER 14 / 1° ANNO UNDER 16
Si prosegue poi con dei lavori di velocizzazione dei piedi che usiamo anche per altri fondamentali ( muro, difesa ), andando però nello specifico e lavorando sulle variazioni veloci degli appoggi sia in senso antero-posteriore che in senso laterale, richiedendo una perfetta bilateralità ( bisogna lavorarci perché non è naturalmente presente nell’essere umano di per sé unilaterale ):
 ESERCITAZIONI CON SCALA ORIZZONTALE OPPURE A CAVALLO
DELLE LINEE
 VARI TIPI DI SKEEP E DI ESECUZIONI DI CAMBIO DIREZIONE VELOCE
 ESECUZIONI SEMPLICI SIA DI BAGHER FRONTALE CHE LATERALE CON RICHIESTA ANCHE DI PRECISIONE NEI BERSAGLI
 ESERCITAZIONI CON TAVOLETTA E PALLINA DA TENNIS
 ESERCITAZIONI CON BASTONE LEGATO AL COLLO
 ESERCITAZIONI CON ELASTICO LEGATO ALLA VITA ED ALLE CAVIGLIE PER MANTENERE LA POSIZIONE FLESSA
 LAVORO DELLE SPALLE CON LANCI E RACCOLTA IN VARI ANGOLI

1° ANNO UNDER 16
Introdurre subito la filosofia della ricezione, partendo dal lavoro sul bagher laterale veloce e sulla esecuzione con le braccia distese fuori dal corpo, continuando con il lavoro per sviluppare il concetto di spinta di gambe andando avanti con il concetto di staccare i piedi e di spostarsi velocemente in situazioni anche estreme, per finire con la ricezione completa magari con servizio da un piano rialzato per aumentare la difficoltà; in generale fissiamo in questa fase la filosofia definitiva togliendo la tentazione del palleggio (inibisce il lavoro degli arti inferiori) e spiegando il suo uso solo in casi particolari (Centrali su palla corta, palla alta, lenta e dritta addosso, correzione di errore di valutazione).
Introdurre accenni ai sistemi di ricezione e sulla organizzazione di squadra nonché sulla comunicazione necessaria e fondamentale per migliorare la collaborazione tra compagni e per rafforzare la convinzione di chi si appresta ad effettuare la ricezione.
 ESERCITAZIONI PER BAGHER LATERALE PER MIGLIORARE LA MOBILITA’ DELLE SPALLE PARTENDO DAVANTI AD UN OSTACOLO OPPURE DAVANTI ALLA PARETE
 ESERCITAZIONI PER BAGHER LATERALE PARTENDO DA POSIZIONI SVANTAGGIATE (sdraiati, in ginocchio, da seduti)
 ESERCITAZIONI PER “SENTIRE” LA SPINTA DELLE GAMBE IN ISOMETRIA CON SOVRACCARICO DEL COMPAGNO OPPURE CON IL PALLONE CONTRO IL MURO
 ESECUZIONI VARIANDO SPESSO IL TIPO DI BATTUTA (salto forte, salto corta, lenta addosso per palleggio, tesa, corta) CON ATTENZIONE ALLA POSIZIONE DI PARTENZA ED ALLA SEQUENZA DEI MOVIMENTI CORRETTI
 ESECUZIONI VARIANDO LA POSIZIONE DI PARTENZA IN SENSO OPPOSTO ALLA DIREZIONE IN CUI VOGLIAMO LAVORARE
 ESERCITAZIONI A SECCO PER MECCANIZZARE LA CHIAMATA “MIA” E ANCHE LA CHIAMATA DEL GIOCATORE CHE NON RICEVE “CORTA” , “LUNGA” , “OUT”

2° ANNO UNDER 16
Scelta del sistema di ricezione a due su ricezione della palla Float facile, mentre sulla battuta Float particolarmente insidiosa sceglieremo la ricezione a tre; insistere sulla comunicazione per chiamare la palla ed aiutare nella valutazione gli altri compagni, ma anche dare responsabilità sulla organizzazione della ricezione stessa se a due oppure a tre (di solito il Libero ha questo compito).
Lavoro intenso sulla ricezione della battuta in salto, partendo da esercitazioni a secco per fissare il gesto con affondo laterale oppure l’uscita con movimento dei piedi oppure attraverso esercitazioni a coppie con il compagno che crea la situazione con attacchi mirati, per finire con un lavoro di ricezione su servizio in salto dal piano rialzato effettuato forte, oppure su servizio dei compagni su zone prestabilite:

 ESERCITAZIONI DI SQUADRA ANCHE SEMPLICI PER MECCANIZZARE LA CHIAMATA “MIA” E LA CHIAMATA DEL GIOCATORE CHE NON RICEVE “CORTA” , “LUNGA” OPPURE “OUT”
 ESERCITAZIONI DI SQUADRA CON SERVIZIO DA VARIE POSIZIONI PER MECCANIZZARE LE COMPETENZE ED ALLENARE TUTTE LE SITUAZIONI
 SERVIZIO CHE PARTE DA PIANO RIALZATO PER AUMENTARE L’INCIDENZA E LA VELOCITA’ DELLA PALLA CHE ARRIVA AI RICEVITORI
 PRIMI ESERCIZI CON RICHIESTA DI PRECISIONE CHE ALL’INIZIO SARA’ INTESA SOLO COME UNA SERIE DI RICEZIONI GIOCABILI E CON CONTROLLO ERRORI (scalando eventualmente gli stessi dal totale)

2° ANNO UNDER 16 / 1° ANNO UNDER 18
Tattica di squadra con particolare attenzione alle competenze riguardo le zone di conflitto tra due ricevitori; scelta della competenza che può essere effettuata in base alle capacità dei ricevitori (ricevono meglio su un lato del corpo e in una certa zona del campo, in generale riceve di più chi riceve meglio), sulla base delle priorità dell’attacco (palla comoda oppure in mezzo la riceve l’uomo di seconda linea per liberare l’attaccante di prima linea), infine sulla base della provenienza del servizio (da zona 5 competenza destra, da zona 1 competenza sinistra), ma quest’ultimo criterio è per me da evitare in quanto toglie spazio e riconoscimento alla maggiore capacità di alcuni rispetto ad altri (Libero riceve di più)
 ESERCITAZIONI DI SQUADRA CON SERVIZIO DA VARIE POSIZIONI E DI TUTTI I TIPI ALTERNANDOLO SPESSO PER ALLENARE L’ADATTAMENTO VELOCE ALLE DIVERSE SITUAZIONI DI PARTENZA E PREPARAZIONE
 ESERCITAZIONI CON IL SERVIZIO E CON RICHIESTA DI PRECISIONE CHE SARA’ QUESTA VOLTA DI TIPO NUMERICO RISPETTO AL NUMERO DELLE BATTUTE RICEVUTE, CON I GIOCATORI CHE SONO CHIAMATI ANCHE A MEMORIZZARE IL LORO RISULTATO (non essere indulgenti e far raggiungere sempre l’obiettivo che dovremo essere bravi a fissare in maniera adeguata al livello)
 ESERCITAZIONI IN SITUAZIONI DI GARA PROVANDO TUTTE LE COMBINAZIONI CHE EFFETTIVAMENTE SI VERIFICANO IN GARA (coppie oppure terzetti) SENZA PERDERE TEMPO CON ESERCIZI A ROTAZIONE (come si era soliti allenare in passato)
 ESERCITAZIONI CHE PRESENTANO OBIETTIVI ANCHE PER I BATTITORI (sempre e comunque) SOTTO FORMA DI SEQUENZE DI CONTROLLO E PRECISIONE DEL SERVIZIO (soprattutto per il salto) OPPURE SOTTO FORMA DI PUNTI DIRETTI DA REALIZZARE CONTROLLANDO IL NUMERO DI ERRORI (scalando gli errori oppure ripartendo da 0)

lunedì 11 maggio 2020

LA PSICOLOGIA DEI GRUPPI. Di Filippo Vagli


Il gruppo sportivo si identifica nel termine “squadra” e può avere molte accezioni differenti, in base allo sport a cui si fa riferimento. Ogni allenatore dovrebbe avere una buona conoscenza delle principali teorie dei gruppi, visto che proprio a lui spetta la guida del gruppo “squadra”.
In questa breve relazione ne sintetizziamo alcune:

LA RELAZIONE INDIVIDUO GRUPPO
La nostra conoscenza del mondo è basata su schemi e categorie; noi tendiamo a categorizzare il mondo, e i gruppi sono gruppi di categorie. Un insieme sfuocato di persone organizzate attorno ad un prototipo.
Con il termine Entitatività indichiamo l’unità percepita di un gruppo cioè quanto un gruppo si riconosce come gruppo; in poche parole il grado di coesione che un gruppo possiede. Non tutti i gruppi infatti hanno lo stesso senso di appartenenza e di identità.  L’entitatività o “unità percepita” rappresenta il grado di coerenza, distintività e organizzazione di un gruppo.

Iniziamo con la preistoria dello studio dei gruppi. I primi studi (siamo a fine dell’800) riguardano che effetto fa la presenza degli altri alle persone. Uno dei primi esperimenti è di Norman Triplet, uno psicologo statunitense. Chiede a dei ragazzini di avvolgere una fune attorno ad un rocchetto e di farlo nel tempo più veloce possibile. Scopre che i ragazzini erano più veloci nello svolgere il compito se era presente qualcuno ad osservarli. Ma non solo. Si accorge che in un contesto competitivo le persone tendevano a dare il massimo, anche se non mancavano le eccezioni: qualcuno in presenza degli altri tendeva a fare peggio e a breve cercheremo di capire il perché.   

Lo stesso fenomeno viene indagato da Allport, uno dei padri della psicologia sociale e grande studioso della psicologia dei gruppi. A partire dagli anni ’20 del secolo scorso, Allport studia un fenomeno che chiama di facilitazione sociale, vale a dire il miglioramento nelle esecuzioni di compiti che avviane grazie alla presenza di qualcun altro. Allport a differenza di Triplet non crea un contesto competitivo, non c’è una gara, e vede che soltanto mettendo la presenza di qualcuno vicino a chi svolge il compito, tendenzialmente lo svolgimento di quel compito migliora. Allport riscontra  che questa regola vale solo se i compiti sono facili e quindi alcune persone che in presenza di altri non ottengono buone performance è perché trovano il compito difficile. Addirittura, per compiti particolarmente difficili, l’effetto può essere l’opposto e cioè un netto calo delle prestazioni (fenomeno dell’inibizione sociale).

La prima spiegazione del fatto che la presenza delle persone facilita i compiti risente delle teorie Freudiane e quindi fa ricorso al concetto di Pulsione. Le altre persone attivano in noi la motivazione all’azione in modo istintivo (per motivi adattivi) verso risposte “dominanti”. Questo significa che in presenza degli altri noi adottiamo il comportamento che valutiamo possa essere il migliore in quella situazione. Pulsione è un concetto complesso. Quale pulsione ci spinge, a causa della presenza degli altri, ad attivare questa risposta “dominante”? Perché dovremmo cercare di dare il meglio di noi se c’è qualcun altro? Una delle spiegazioni possibili è che ciò sia legato a qualche forma di paura e nella fattispecie alla paura del giudizio. Abbiamo il timore di essere mal giudicati e questo timore funziona come un facilitatore all’azione. Anche questo però è vero soltanto parzialmente perché sappiamo anche che a volte il timore del giudizio degli altri ci rende più timorosi, goffi.

Un’altra teoria interessante riguardo all’aumentare le nostre performance in presenza di altre persone è la teoria della discrepanza del sé (Higgins 1987). Quando c’è discrepanza tra quello che chiamiamo il Sé Reale (ciò che sono) e il Sé Ideale (come vorremmo apparire agli altri) tendo a peggiorare le mi performance. La presenza degli altri, aumenta l’autoconsapevolezza e quindi aumenta la consapevolezza a volte dolorosa e disagevole della distanza che c’è tra ciò che siamo e ciò che ci piacerebbe apparire agli occhi degli altri e per ridurre questa distanza cerchiamo di impegnarci di più. In poche parole, ci attiviamo per fare bella figura.

Avevamo accennato al fatto che un compito difficile potrebbe creare problemi di performance quando nello svolgerlo siamo osservati da altri. Fondamentalmente perché l’aspettativa di fallire e quindi di fare una brutta figura ci mette in imbarazzo, e quindi ci rende meno performanti. Inoltre, perché la presenza degli altri assorbe risorse attentive (noi abbiamo una disponibilità di risorse attentive che ci serve per eseguire i compiti  avere in mente la presenza di qualcun altro potrebbe ridurre queste importanti risorse).

Ora vediamo perché quando lavoriamo in gruppo le nostre prestazioni a volte possono diminuire. Una spiegazione  è che possa dipendere dalla perdita di coordinazione, vale a dire che le prestazioni in gruppo possono peggiorare perché non è semplice coordinarsi con il gruppo e allora ci può essere qualcuno che nel gruppo diventa silente. Un’altra spiegazione è che se lavoriamo in gruppo c’è una sorta di tendenza all’inerzia (inerzia sociale); se pensiamo che qualcuno oltre a noi stia lavorando ad un compito ci impegniamo di meno, diminuisce la nostra motivazione. Un piccolo esperimento: prendiamo una persona, la bendiamo e gli mettiamo i tappi alle orecchie; gli diciamo che si trova in un gruppo di due persone e deve applaudire ad uno spettacolo. Poi gli diciamo che le persone sono tre, poi quattro e così via. Più aumentiamo la dimensione del gruppo e più ci accorgiamo che le persone si risparmiano, applaudono di meno e questo anche se non hanno la percezione di quello che sta facendo il gruppo. Non sentono quanto battono forte le mani gli altri ma gli basta sapere che facciano parte di un gruppo discretamente numeroso per far si che il loro impegno si riduca. Come ci spieghiamo il fenomeno dell’inerzia sociale?
-          Equità del risultato: noi facciamo in modo di fare tanto quanto gli altri, non di più,
-          Paura del giudizio: se il nostro contributo è saliente, se ci impegniamo, potremmo dare nell’occhio, invece nei gruppi a volte noi preferiamo a rimanere nell’anonimato
-      Conformità allo standard: è come se ognuno sapesse che in gruppo si fa un pochino di meno e quindi ci adattiamo alla regola. E questo vale soprattutto quando ci troviamo in un gruppo che non sappiamo bene che regole abbia.  

Esiste poi una spiegazione basata sul gruppo sociale, quella della Compensazione Sociale. In pratica, se il compito è percepito come molto rilevante moltiplicheremo gli sforzi anche per i nostri compagni meno partecipativi o meno capaci. Pertanto, la regola che ci impegniamo di meno non è una regola assoluta, ma è legata a quella che chiamiamo identità sociale, cioè al modo in cui noi stiamo nel gruppo. E quindi se ad es. stiamo partecipando ad una competizione in gruppo e per noi quella competizione è molto importante noi faremo il contrario e quindi ci impegniamo di più. Immaginando che gli altri non daranno il massimo e quindi cercando di compensare dando noi il 110%.

Altri fattori che possono portare ad un aumento dell’impegno in gruppo:
-      Appartenere a culture collettivistiche. Es per la cultura asiatica più si sta in gruppo più ci si deve impegnare
-          Quando si hanno aspettative di successo elevato: più ci aspettiamo di poter vincere in gruppo e più ci impegniamo
-          Forte appartenenza e identificazione al gruppo
-          Forte solidarietà e coesione di gruppo

IL FUNZIONAMENTO DEI GRUPPI
La Coesione del gruppo è la sua tendenza a percepirsi e a mantenersi unito. Si basa su un legame affettivo e sul senso di unitarietà e sulla collaborazione e lo spirito di squadra. L’apprezzamento è fondamentale nella coesione di gruppo (quanto più apprezziamo il nostro gruppo quanto più saremo portati ad agire in maniera coesa con il gruppo). L’apprezzamento si basa su due variabili:
-         L’attrazione personale: in gruppi piccoli noi conosciamo le persone e le apprezziamo personalmente
-          L’attrazione sociale: vale soprattutto nei gruppi grandi e si basa sull’identificazione con quel gruppo (faccio parte di un grande gruppo e per questo attribuisco sia al gruppo che a me caratteristiche positive)

Socializzazione di gruppo: E’ un processo dinamico tra il gruppo e i suoi membri nel quale variano il coinvolgimento e il ruolo degli individui. E’ un processo dinamico perché noi non siamo fermi nel processo di socializzazione nel gruppo ma cambia nel tempo e questo si chiama processo di socializzazione che si svolge secondo tre fattori principali:
-          Valutazione: cosa ci ricaviamo ad impegnarci nel gruppo
-          Coinvolgimento: il livello di collaborazione e di voglia che il gruppo continui nel tempo
-          Transizione di ruolo: i cambiamenti di ruolo che nel corso del tempo ci accadono nel gruppo
Quindi nel tempo noi cambiamo il nostro modo di percepirci nel gruppo e anche il modo in cui il gruppo ci percepisce.

Le transizioni di ruolo sono frequentemente sancite da riti di iniziazione (procedure che rendono chiaro agli occhi di tutti il cambiamento di ruolo nel gruppo). Queste funzioni hanno:
-          Una funzione simbolica: riconoscimento pubblico del cambiamento di status (ecco perché facciamo la cerimonia della laurea con tutti gli invitati. Perché il gruppo ci riconosca che abbiamo cambiato status, eravamo studenti e adesso siamo dottori)
-          Una funzione di apprendistato: i cambiamenti di ruolo prevedono un periodo di adattamento e di apprendistato al nuovo ruolo
-          Una funzione di fidelizzazione: sono dei “premi” che aumentano il coinvolgimento nel gruppo

Alcuni riti di iniziazione sono spiacevoli perché se c’è un accesso difficile aumenta il valore di far parte di quel gruppo e in più la solita dissonanza cognitiva di cui abbiamo già parlato, cioè se abbiamo superato prove difficili per entrare poi tenderemo a dire: “Beh, se ho fatto prove così difficili vuole proprio dire che il gruppo lo meritava e che ne valeva la pena” e questo fa aumentare il valore percepito dell’appartenenza al gruppo.

Struttura del gruppo: All’interno di ciascun gruppo ci suono ruoli e relazioni fra i membri e status.
Ruoli:
-          Sono norme applicate a singoli membri (quello è il capo e fa quelle cose; quello è il gregario e ne fa altre)
-          Distinguono le attività dei membri in modo funzionale per il gruppo
-          Regolano le relazioni fra i sottogruppi
-          Delineano una suddivisione di compiti e funzioni
-          Possono essere espliciti o impliciti e informali (ci sono ruoli istituzionali e ruoli informali: “lui è quello che conosce le strade, seguiamo lui)
Status:
Non ci sono solo differenze orizzontali nei gruppi ma esiste anche lo status che è la dimensione verticale dei ruoli, cioè ruoli diversi hanno valutazioni diverse a livello di prestigio (il presidente avrà uno status più elevato degli altri). Lo status non ha un valore assoluto ma dipende dal contesto.  Se sono un  membro della squadra di pallavolo dell’università a cui sono iscritto, quando ci sono i campionati universitari di pallavolo avrò un altro status; ma quando vado male all’università perché ho voti bassi, quel mio status legato all’appartenenza alla squadra non vale niente.

La Teoria dell’aspettativa di Status ci dice che i ruoli si formano in base ad aspettative connesse allo status. Quindi noi abbiamo un’idea degli altri anche basata sullo status. Facciamo un esempio: negli USA esistono le giurie popolari. Queste giurie hanno un presidente che viene eletto dal gruppo e statisticamente è molto frequente che venga votato come presidente qualcuno che è un medico, un professore, un professionista affermato, piuttosto che qualcuno che fa il meccanico o l’operaio. Tendiamo quindi ad attribuire in base allo status delle capacità (che non è detto che ci siano, perché non è detto che perché è un medico sappia di diritto più di un operaio). E quindi diciamo che lo status generale tende a generare aspettative pervasive cioè non limitate ad un certo ambito e contesto.

Reti di comunicazione
Un’altra cosa che dobbiamo vedere nei gruppi è come circolano le informazioni all’interno del gruppo. Esistono due modi principali:
-          Reti centralizzate: tutta la comunicazione passa per un punto centrale (es. se lavorate con un gruppo di 5 persone e ognuno deve riferire quello che fa ad un capo del gruppo; i partecipanti non comunicano fra di loro ma riferiscono tutti al capo del gruppo). Le reti centralizzate funzionano meglio per compiti semplici ma hanno lo svantaggio che possono far sentire alcuni membri più “periferici”, meno coinvolti
-          Reti decentrate: Sono più adatte a compiti complessi, non sovraccaricano un’unica persona, e migliorano il senso di partecipazione.

Sottogruppi:
I gruppi si suddividono anche in sottogruppi che possono essere definiti Inglobati  cioè un gruppo più piccolo che fa parte di un gruppo più grande o Trasversali, sottogruppi che appartengono a gruppi diversi
Con i sottogruppi esiste la possibilità che possa nascere la competizione e conflitto tra i sottogruppi. Il tutto può essere entro certi limiti funzionale al cambiamento ma la competizione fra gruppi tendenzialmente sottrae risorse al gruppo e può quindi diventare dannosa.

Perché entriamo a far parte dei gruppi? Ci sono alcune spiegazioni storiche:
-          Negli anni 50 si diceva per semplice prossimità, e quindi visto che abbiamo la tendenza ad entrare in gruppo entriamo in quello che ci sta più vicino
-          Negli anno 60 si parlava di obiettivi comuni cioè: a volte ci sono cose che possiamo fare insieme e che da soli non riusciamo a fare e quindi collaborare con i nostri simili ci conviene
-          Negli anni 90 c’è stata una spiegazione evoluzionistica (in voga anche attualmente) è che esiste un bisogno di appartenenza cioè siamo una specie sociale a abbiamo una tendenza a costituirci in gruppo con gli altri perché questo è vantaggioso per la sopravvivenza sella specie. In natura, un animale isolato dal brando è destinato a campare poco
-          Anni 2000: motivazioni di tipo più esistenziale quale l’Incertezza sull’identità cioè il gruppo ci aiuta a sapere chi siamo e la famosa Gestione del terrore, cioè il gruppo ci difende rispetto alla sensazione di essere vulnerabili ed esposti al pericolo della morte. Il gruppo ci darebbe maggior solidità rispetto all’incertezza della vita.

Se è così importante essere inclusi in un gruppo è altrettanto vero che l’esclusione da un gruppo è un’esperienza dolorosa. Si parla ad esempio di ostracismo chiamato “cyberball” per indicare quel fenomeno di deliberata esclusione che un gruppo opera su uno dei suoi membri. Questa esperienza è fonte di disagio su 4 dimensioni:
-          Appartenenza: la persona esclusa di sente meno parte del genere umano
-          Controllo: gli sembra di non poter più poter decidere del mondo attorno a sè
-          Autostima: si abbassa l’autostima
-          Significato: significa che quando veniamo esclusi ci sembra che la vita abbia meno senso

L’esperimento famoso che viene citato è quello nel quale tre persone (Tizio, Caio e Sempronio) si devono passare la palla. Se Tizio e Caio incominciano a passarsi la palla solo tra di loro e non la passano mai a Caio, si genera l’oggetto dell’ostracismo.

In conclusione, possiamo affermare che è necessario che in ogni contesto sportivo venga curato nei minimi dettagli il “sistema gruppo” anche perché un gruppo ben strutturato ben gestito, con una buona qualità delle relazioni interne può mettere in campo risorse nettamente superiori rispetto al singolo individuo.  
Ecco perché ogni allenatore oltre alle conoscenze tecniche, tattiche, condizionali, ha il compito di conoscere le dinamiche di relazione dei gruppi, per mettere a proprio agio ogni atleta al fine di rendere il proprio gruppo sempre più efficace, efficiente e vincente.
Nei prossimi giorni vi parlerò di un altro argomento collegato alla psicologia dei gruppi vale a dire quello relativo alle principali teorie sulla Leadership. 



venerdì 8 maggio 2020

I DODICI PALLEGGIATORI CHE HANNO SCRITTO LA STORIA DELLA PALLAVOLO MODERNA. Di Filippo Vagli




Chi è stato il più grande palleggiatore che la pallavolo ha espresso negli ultimi quarant’anni? E’ impossibile poterne individuare uno. Il titolo del più grande in assoluto non esiste. Analizzando lo sviluppo degli ultimi quarant’anni di pallavolo si può facilmente osservare una notevole evoluzione del gioco così come dei sistemi di allenamento. Sono state inoltre individuate nuove e sempre più dettagliate tecnologie riguardo lo studio degli avversari, così come sono completamente mutate le condizioni ambientali in cui vengono disputate le gare di oggi rispetto a quelle di qualche decennio fa. Una serie di considerazioni che ci restituiscono dati disomogenei fra di loro, che non consentono una valutazione oggettiva utile per poter individuare il migliore in assoluto. Possiamo però affermare che, una serie di palleggiatori, per tecnica, classe, stile di gioco, carisma, capacità di leadership e palmares, si sono nettamente distinti rispetto a tutti gli altri. Tra questi, immaginando un’ideale tavola rotonda del grande volley ne abbiamo individuati dodici, andando quindi alla ricerca degli alzatori che potrebbero avere titolo per sedersi attorno a tale tavolo esattamente come facevano i dodici cavalieri (condottieri di corte di rango elevato) e Re Artù quando riuniti attorno alla tavola rotonda del castello di Camelot, discutevano i temi chiave per il miglior funzionamento del regno.
Considerando che gli atleti tutt’ora in attività stanno ancora scrivendo importanti pagine di storia della pallavolo e pertanto solo al termine delle loro carriere si potrà arrivare a fornire una loro valutazione complessiva, nell’individuazione dei “dodici eletti” sono stati presi in considerazione soltanto i palleggiatori che, oltre ad aver giocato negli ultimi quarant’anni, hanno appeso le scarpette al chiodo. E visto che, come già detto, il migliore in assoluto non esiste, presentiamo i “magnifici dodici” in stretto ordine cronologico di apparizione sui parquet dei palasport di tutto il mondo.

KATSUTOSHI NEKODA
Nato ad Hiroshima il giorno 1 febbraio 1944 è stato il palleggiatore della squadra nazionale giapponese che tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70 ha rivoluzionato lo sport della pallavolo. In quegli anni la pallavolo si gioca prevalentemente con alzate di palla alta in posto due e quattro e si basa sulla capacità degli schiacciatori, saltatori impressionanti e potentissimi nel colpo d’attacco, di passare sopra il muro avversario. E’ con questo tipo di gioco che la scuola dell’Unione Sovietica e dell’Est Europa in generale (Cecoslovacchia, Polonia, Bulgaria e Germanie Est)  domina la scena della pallavolo mondiale. Nekoda grazie alla sua abilità tecnica e alla sua fantasia, organizza attraverso le sue mani magiche un gioco fatto di movimento e di velocità di esecuzione delle azioni d’attacco in ogni zona della prima linea. Veloci anticipate al centro, secondi tempi davanti e dietro al centrale e palle rapide alle bande. Grazie a questo sistema di gioco pionieristico il Giappone conquista la medaglia d'oro alle Olimpiadi di Monaco del 1972 dopo aver conquistato la medaglia di bronzo e d’argento nelle precedenti edizioni dei giochi olimpici del 1964 e del 1968 e quattro edizioni dei giochi asiatici, dal 1966 al 1978. Nekoda, dopo aver ricevuto il premio per il miglior palleggiatore in due edizioni della Coppa del Mondo (Germania Est 1969 e Giappone 1977) si spegne a causa di un male incurabile nel 1983, tre anni soltanto dopo essersi ritirato dalle competizioni agonistiche

VIACESLAV ZAYTSEV
Nato a Leningrado 12 novembre 1952, si fa conoscere dal pubblico italiano nel 1978 in occasione dei mondiali di pallavolo a Roma. Grandissimo palleggiatore di una della delle squadre più forti della storia del volley, caratterizzata da tecnica, forza fisica e un gioco che rasenta la perfezione. Zaytsev di quella squadra è il regista, il giocatore che in campo orchestra il gioco e smista palloni per quei grandissimi attaccanti che rispondono al nome di Loor, Tchernichov, Moliboga, Selivanov e soprattutto Alexander Savin. La precisione delle sue alzate, eseguite con i piedi a terra anziché in salto, è la caratteristica che più di ogni altra lo ha reso famoso, con traiettorie sempre uguali l’una con le altre. Tatticamente ineccepibile, sempre freddo e lucidissimo, assorbe dalla scuola sovietica il concetto di organizzare il gioco delle proprie squadre andando alla ricerca della massima concretezza ed efficienza più che dello spettacolo fine a sé stesso. Dopo aver giocato per tredici campionati nell’Automobilist Leningrado con cui conquista due Coppe delle Coppe, nel 1982 e nel 1983, fu il primo pallavolista sovietico a trasferirsi all’estero per giovare come professionista. Arriva in Italia nella stagione 1987/88, nella fase terminale della carriera, dove giocha per cinque stagioni vestendo le maglie di Spoleto, Agrigento e Città di Castello. Chiude la sua straordinaria carriera nella stagione 1992-1993 in Svizzera, nella Pallavolo Lugano, vestendo i panni di giocatore-allenatore. Con la maglia della nazionale dell’Unione Sovietica Zaytsev ha conquistato una medaglia d’oro olimpica e due d’argento, due Coppe del Mondo, due Campionati Mondiali e sette Campionati Europei. Nell’anno 2013 viene inserito nella Hall of Fame del volley mondiale come meritato riconoscimento alla carriera di questa icona della pallavolo mondiale.

KIM HO CHUL
Coreano nato a Seul nel 1955, durante il Mondiale del 1978 impressiona il pubblico romano mettendo in mostra una naturalezza fuori dal comune nel tocco di palla nonché una rapidità felina nel muoversi per il campo per eseguire i palleggi d’alzata. L’idea di pallavolo di Kim, molto influenzata dalla pallavolo giapponese di Nekoda, si basa sul concetto che il gioco d’attacco di una squadra nasce e si sviluppa intorno all’attacco di primo tempo. Per il funambolo coreano è da lì che si parte per costruire tutti i possibili schemi in grado di mettere il più possibile i propri schiacciatori di fronte a muri composti da solo un uomo. Il coreano propone quindi un gioco estroso e velocissimo, estremamente spettacolare da vedere, con una rapidità di uscita della palla dalle mani che lascia a bocca aperta. Quando la palla entra nelle sue mani ne esce dopo qualche nanosecondo con una tale velocità che l’occhio umano quasi non riesce a percepire. Parma nella stagione 81/82 riesce a portarlo in Italia offrendogli l’opportunità di sciorinare nei nostri palasport le sue mirabolanti alzate, espresse attraverso i suoi celeberrimi trentatré schemi d’attacco. Un modo di concepire il ruolo di palleggiatore che, oltre a renderlo famoso, regala alla pallavolo italiana e mondiale un gioco innovativo, spettacolare, e nello stesso tempo di grandissima efficienza. Con la Santal Parma, della cui tifoseria diventa l’idolo incontrastato, disputea tre stagioni conquistando due scudetti, due Coppe Italia e una Coppa dei Campioni prima di fare ritorno in Corea. Torna in Italia nella stagione 87/88 richiamato dalla Sisley Treviso dove disputa tre campionati prima di trasferirsi a Schio dove dopo cinque stagioni chiude la sua gloriosa carriera da atleta.

WILLIAM DA SILVA
William Carvalho da Silva, più conosciuto come Da Silva, nasce a San Paolo il 16 novembre 1954. Palleggiatore “fantasista”, caratterizzato da due folti baffi neri, è un atleta rapidissimo di piedi e dotato di grande temperamento. L’imprevedibilità delle sue alzate dipende dalla grande capacità dell’utilizzo dei centrali con diversi tipi di primo tempo e di smarcare gli attaccanti di secondo tempo, attraverso traiettorie rapidissime. Essendo altro solo 183 centimetri, Wiliam utilizza molto l’azione delle braccia nel palleggio impattando la palla piuttosto avanti al fine di poterla spingere velocemente e per far questo gioca una pallavolo spettacolare fatta di finte e controfinte volte ad ingannare il muro avversario e smarcare il più possibile i propri attaccanti. Famose per spettacolarità le sue alzate tese per l’universale Bernard Rajzman e per il gioco spintissimo in posto due a favore di Josè Montanaro l’opposto che sia in nazionale che nel Pirelli San Paolo viene schierato in diagonale con lui. A ventidue anni è già titolare della nazionale brasiliana con la quale nel 1976 gioca la sua prima Olimpiade a Montreal a cui ne seguiranno altre tre, Mosca 80, Los Angeles 84 (medaglia d’argento) e Seul 88. Con il proprio club, il Pirelli San Paolo, gioca per dieci stagioni consecutive dal 1980/81 al 1990/91, conquistando due Campionati sudamericani per club, due Campionati brasiliani e sei Coppe del Brasile. Nella stagione 1979/80 sbarca in Italia, per una breve parentesi di un solo anno, nella grande Paoletti Catania di Greco, Nassi, Concetti e Scilipoti guidata da Bruno Feltri in panchina, squadra che al termine di una grande stagione si classifica al secondo posto, staccata di sei punti dalla Klippan Torino campione d’Italia.

DUSTY DVORAK
Dusty Dvorak, detto anche il “ragioniere” per le sue capacità organizzative, strategiche e per precisione millimetrica delle sue alzate, nasce a San Diego, in California, il 29 luglio 1958. Come tutti i pallavolisti provenienti dalla California è il beach volley la disciplina con cui inizia ad approcciare il volley. A sedici anni inizia con l’indoor e l’anno successivo fa già parte della nazionale juniores a stelle e strisce guidata da quel Doug Beal che lo porterà poi con sé in nazionale maggiore. Dvorak dispone di un palleggio non brillantissimo dal punto di vista squisitamente tecnico e stilistico. Gomiti molto aperti, palla piuttosto trattenuta tra le mani e impattata più vicino al petto che sopra la testa, sopperisce a tutto ciò con una precisione millimetrica delle traiettorie d’alzata e con una straordinaria capacità tattica e strategica. Capace di sfruttare al massimo i punti di forza della propria squadra e i punti deboli dell’avversario attraverso una formidabile capacità di lettura del muro, eccelle nella pianificazione strategica della partita e quindi nell’utilizzo della tattica migliore da utilizzare nel corso della gara attraverso piani pianificati a tavolino con i propri tecnici. Con la nazionale a stelle e strisce conquista un oro olimpico, un campionato Panamericano, un Campionato del Mondo e una Coppa del Mondo. Nel 1984 sbarca in Italia e precisamente a Chieti dopo rimane per una sola stagione (84/85) così come a Fontanafredda (86/87). Il meglio di sé nel nostro campionato lo fa vedere a Parma, nella prima Maxicono di Gian Paolo Montali con cui conquista due Coppe delle Coppe, una Supercoppa Europea, e un Mondiale per Club. 

JEFF STORK
Nel 1989 Gian Paolo Montali, reduce da due secondi posti in campionato con la Maxicono Parma, vuole portare la sua squadra ad esprimere il gioco più veloce possibile per arrivare alla conquista del tanto agognato scudetto. Il palleggiatore che individua per raggiungere il suo obiettivo è Jeff Stork, nuovo palleggiatore della nazionale statunitense. Esattamente come accaduto nella propria nazionale Jeff anche a Parma riceve il testimone da Dusty Dvorak in cabina di regia del club biancoazzurro. Nato a Longview, nello stato di Washington l’otto luglio 1960, Stork è un palleggiatore mancino di 190 centimetri estremamente dotato sia nel fondamentale del palleggio che in quello dell’attacco. Alla velocità supersonica di uscita della palla dalle mani, imprevedibilità delle sue giocate grazie alla capacità di usare sia i centrali che di smarcare i secondi tempi attraverso traiettorie velocissime, abbina una straordinaria capacità di attacco di secondo tocco che lo rendono un vero e proprio schiacciatore aggiunto per la propria squadra. Queste caratteristiche fanno di lui uno degli alzatori più vincenti della storia della pallavolo mondiale. E’ Marv Dunphy, suo allenatore ai tempi in cui Jeff gioca nella Pepperdine University, che gli regala la maglia di palleggiatore titolare bella nazionale con cui conquista un campionato del mondo (1986) e una medaglia d’oro olimpica. Con la Maxicono Parma in due stagioni conquista uno scudetto, una Coppa Italia, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa Europea, e un Mondiale per Club. Nella stagione 1991/92 Doug Beal lo vuole a Milano, dove disputa quattro campionati conquistando un Mondiale per Club, una Coppa delle Coppe e il titolo di MVP della nostra serie A nell’anno 1993.

FABIO VULLO
Toscano di Massa nato il 1 settembre 1964, inizia la sua grande carriera nella pallavolo di alto livello a Torino,  nella Kappa di Silvano Prandi conquistando il suo primo scudetto nella stagione 83/84. In quella stagione divide la cabina di regia con Piero Rebaudengo dal momento che in quell’epoca si gioca con il modulo 4-2, quello con il doppio palleggiatore. Con la cessione di Rebaudengo a Parma, Vullo diventa palleggiatore unico e nel 1986 viene acquistato dalla Panini Modena che gli consegna le chiavi della regia, appartenenti fino alla stagione precedente ad un’altra icona del volley italiano, Pupo Dall’Olio. Da molti considerato il miglior palleggiatore italiano di tutti i tempi, Fabio Vullo è un alzatore moderno di 198 centimetri di talento e naturalezza nel tocco di palla che, pur avendo lunghe leve, riesce ad avere grande mobilità e facilità di spostamento per eseguire i palleggi. Grande controllo emotivo della partita e ottima lucidità nei momenti decisivi della gara, sono alcune le caratteristiche che gli consentono di poter eseguire le migliori opzioni dal punto di vista tattico e strategico. Attraverso innate doti di leadership, riesce a trasmettere e far accettare alla squadra le proprie scelte e il proprio modo di giocare, infondendo grande fiducia ai propri attaccanti. Grandioso nei club in cui ha palleggiato, Torino, Modena, Ravenna, Treviso e Macerata, con un’impressionante serie di trofei conquistati: otto Scudetti, sette Coppe dei Campioni, sei Coppe Italia, due Coppe delle Coppe, un Campionato del Mondo per Club, tre Supercoppe Europee e una Supercoppa italiana. Molto più controverso il rapporto con la maglia della nazionale. Julio Velasco però gli preferisce Paolino Tofoli e Fefè De Giorgi come registi della “nazionale dei fenomeni”, e questo gli renderà decisamente più magro il palmares in azzurro con appena una vittoria in World League e una medaglia di bronzo olimpica a Los Angeles 1984. Molto, troppo poco, per un atleta del suo valore.

PAOLO TOFOLI
Nato nel 1966 a Fermo, nelle Marche, terra di grande tradizione pallavolistica, è il regista a cui Julio Velasco una volta nominato C.T. azzurro affida la regia della nazionale italiana. Scelta che più azzeccata non poteva essere dal momento che alle 226 presenze azzurre di Tofoli sono legati i più grandi successi internazionali della nazionale targata Velasco. Palleggiatore molto tecnico, preciso, veloce sia di piedi che di uscita della palla dalle mani, ha nella costanza di rendimento e nella gestione tattica delle partite i punti di forza che lo rendono atleta di estrema affidabilità. Bravo nel gioco in primo tempo anche con palloni ricevute fuori rete, è altrettanto abile nello smarcare i suoi attaccanti di secondo tempo quando ha a disposizione ricezioni perfette e il muro avversario si aspetta un primo tempo. Ottimo anche nei palleggi di contrattacco, situazioni in cui riesce ad alzare ai propri schiacciatori di posto quattro alzate di palla alta molto precise, mettendoli nelle migliori condizioni per poter attaccare contro muri alti e chiusi. Un leader silenzioso, correttissimo in campo e fuori, senza mai un atteggiamento fuori posto e con l’innata capacità di tramutare in giocate perfette la tattica di gioco studiata a tavolino dai suoi allenatori. Quattro i suoi principali club: Padova, Trento, Roma, con un anno solo in Umbria nel RPA Caffè Maxim Perugia, con i quali mette in bacheca complessivamente tre scudetti, una Coppa Italia, una Coppa dei Campioni, due Coppe CEV, una Coppa delle Coppe, una Supercoppa Europea. In azzurro conquista invece due titoli mondiali, una medaglia d’argento olimpica, una Coppa del Mondo e quattro edizioni della World League.

PETER BLANGE’
Dall’altro dei suoi 205 centimetri è l’alzatore più alto della pallavolo mondiale. Nato a Voorburg, in Olanda il 9 dicembre 1964 cresce nel suo paese tra Starlift e Brother Martinus per approdare nel nostro campionato nella stagione 1990/91 nelle Terme Acireale Catania. A oltre mille chilometri di distanza da Catania c’è una squadra, la Maxicono Parma, che nell’estate del 1991 ha la necessità di rimpiazzare il palleggiatore titolare, Jeff Stork, allettato dal progetto e dai dollari della Mediolanum Milano di Silvio Berlusconi. In panchina a Parma siede un tecnico brasiliano, Paulo Roberto de Freitas più noto come Bebeto, che di pallavolo ne capisce come pochi. Il tecnico carioca dispone di un gruppo di atleti con un potenziale offensivo impressionante formato da Giani, Gravina, Bracci, Carlao e Renan Dal Zotto e per valorizzare al massimo questo straordinario patrimonio d’attacco ha bisogno è un palleggiatore che ne sappia esaltare al massimo le caratteristiche. Bebeto per la sua Maxicono ha in mente un gioco “brasiliano”, basato su schemi d’attacco che prevedono alzate molto spinte, con giocate a grande velocità. Intuisce che nessuno meglio che quello spilungone olandese che sta giocando a Catania può garantirglielo dal momento che Blangè, grazie alla possibilità di palleggiare ad altezze siderali riesce ad eseguire palleggi in salto senza flettere le braccia e con l’azione dei soli polsi, rendendo le sue difficilmente leggibili fino all’ultimo istante al muro avversario. Aggiungendo a ciò una grande velocità di uscita della palla dalle mani, questo grandissimo palleggiatore riesce a provocare al gioco un' incredibile accelerazione riducendo enormemente il tempo intercorso tra alzata e schiacciata creando così grossi grattacapi ai muri e alle difese avversarie. E infatti l’organizzazione di gioco di Peter Blangè sarà alla base dei successi della Maxicono 91/92 (Scudetto, Coppa Italia e Coppa CEV), squadra che verrà ricordata come una delle più spettacolari di tutti i tempi. A Parma il palleggiatore olandese rimane altre quattro stagioni conquistando complessivamente due scudetti, una Coppa Italia e una Coppa CEV. Nella stagione 97/98 si trasferisce a Treviso, dove rimane per due stagioni, conquistando altri due scudetti, una Coppa Campioni, una Supercoppa Italiana e un’altra coppa CEV. Straordinario il suo palmares anche con la maglia degli “Orange” con la quale conquista una World League, una medagli d’argento alle Olimpiadi di Barcellona 1992 ma soprattutto l’oro olimpico ad Atlanta 1996, che rappresenterà la ciliegina sulla torta della sua straordinaria carriera.

LLOY BALL
Nel solco della tradizione dei grandi pallavolisti statunitensi Lloy James Ball, nato a Fort Wayne il 17 febbraio 1972, si inscrive a pieno titolo nel novero dei palleggiatori che hanno fatto la storia del volley moderno. Ball viene “scippato” al basket, sport per cui era stato selezionato del mitico Bobby Knight ai tempi dell’università e raccoglie il testimone in cabina di regia della propria nazionale dal grande Jeff Stork. 203 centimetri di altezza, palla precisa e velocissima, Lloy è un alzatore “moderno”. Oltre che nel fondamentale del palleggio, caratterizzato da velocità, imprevedibilità e precisione, con traiettorie sempre uguali rispetto a quelle stabilite con i sui attaccanti, eccelle in battuta, a muro e in difesa. A queste doti Lloy unisce una personalità molto forte e una notevole abilità tattica che lo rendono leader carismatico dei sestetti da lui guidati. Unico pallavolista statunitense ad aver partecipato a ben quattro Olimpiadi, dopo aver preso parte ai giochi olimpici nelle edizioni del 1996, 2000 e 2004, Ball ha messo il sigillo alla sua straordinaria carriera con la maglia a stelle e strisce vincendo la medaglia d'oro ai Giochi Olimpici di Pechino 2008. Con i club gioca quattro straordinarie stagioni nella nostra serie A1 a Modena, vincendo uno scudetto e una Coppa Italia, due stagioni a Salonicco, in Grecia, dove conquista 1 scudetto e due Coppe di Grecia per concludere la sua grande carriera a Kazan, in Russia, dove vince uno scudetto e un titolo di miglior palleggiatore nella Champions League 2011.

NIKOLA GRBIC
Nasce a Zrenjanin, regione serba dell’ex Jugoslavia, il 6 settembre 1973. Inizia i primi palleggi nella pallavolo di altro livello nel Vojvodina di Novi Sad e il suo nome inizia fin da subito a circolare nell’ambiente come quello di un grande talento, una sorta di predestinato. Le principali squadre italiane gli mettono immediatamente gli occhi addosso e nella stagione 94/95 la Gabeca Galatron Montichiari riesce a strapparlo alla concorrenza dei club rivali. Nikola è un palleggiatore alto, poco leggibile dal muro avversario grazie alla capacità di impattare la palla in posizione neutra rispetto al corpo e ad un palleggio fatto quasi ed esclusivamente di azioni di polso anziché di braccia, nonché forte in battuta e a muro. Pur essendo dotato di una grande personalità a soli ventun’anni, complice anche qualche problema di natura fisica non convince fino in fondo il club monteclarense e non ottiene la conferma in cabina di regia per l’anno successivo. A Catania però allena un suo connazionale, Ljubomir Travica, che conoscendolo fin dall’epoca della juniores crede profondamente nelle doti di questo ragazzone di 195 centimetri e gli affida le redini della propria squadra. Nikola lo ripaga disputano in Sicilia una grande stagione che culmina con la promozione in serie A1, mettendo in mostra prestazioni che gli valgono il ritorno a Montichiari. Da li in avanti parte una lunga carriera che si sviluppa tra Cuneo, Treviso, Piacenza, Trento, nuovamente Cuneo e Zenit Kazan (Russia) con uno straordinario palmares costituito da due Supercoppe Europee, una Coppa delle Coppe, tre Coppe Italia, due Coppe Campioni, due scudetti Italiani, una Supercoppa Italiana, una Coppa CEV e uno scudetto russo. Anche con la propria nazionale Nikola ottiene grandi risultati tra cui spiccano la medaglia d’oro olimpica a Sidney 2000 e la vittoria di un Campionato Europeo in Repubblica Ceca nell’anno 2001 a fare da ciliegine sula torta della sua splendida carriera.

GARCIA RICARDO “RICARDINHO”
Ricardo Bermudez Garcia, più noto con lo pseudonimo di Ricardinho nasce in Brasile, a San Paolo, il 19 novembre 1975. Inizia a giocare a pallavolo nel settore giovanile del Banespa, gloriosa società brasiliana, ma fa il proprio esordio nella pallavolo professionistica nel 1995 nelle fila del Cocamar Maringá. Seguono poi sette stagioni in cui Ricardinho cambia squadra ogni anno fino ad arrivare alla stagione 2004/2005 nella quale approda al nostro campionato e precisamente alla Daytona Modena, con cui gioca quattro campionati conquistando una Challenge Cup nella stagione 2007-08. L’anno successivo si trasferisce alla Sisley Treviso dove rimane per sue stagioni, chiudendo la sua parentesi italiana nella stagione 2014/2015 nella Cucine Lube Banca Marche Treia. Palleggiatore dotato di una velocità di palla impressionante, riesce ad imprimere al gioco un ritmo vorticoso basato su schemi d’attacco in cui entrano sempre quattro attaccanti, caratteristica che lo rende pressoché immarcabile per i muri avversari. Il suo gioco super veloce per essere efficiente ha però bisogno di un particolare “timing” fatto di sincronismi perfetti, paragonabili a quelli di un orologio svizzero, e fatica ad essere metabolizzato dagli schiacciatori delle nostre squadre di club. La dimostrazione a tutto ciò è data dal fatto che nei suoi sette anni trascorsi a palleggiare nelle squadre di vertice della nostra serie A1 riesce a conquistare solo una Challenge Cup. Completamente diverso il suo percorso con la nazionale brasiliana dove il suo modo di alzare esalta le caratteristiche di attaccanti come Giba, Giovane, André Heller, André Nascimento, Anderson, Nalbert, Murillo, Gustavo Anders, Dante Amaral, Rodrigao, legando il suo nome ai più importanti risultati del Brasile di Bernardinho, squadra riconosciuta all’unanimità come una delle migliori e più spettacolari della storia della pallavolo mondiale. Impressionante il suo palmares con i verdeoro, con cui conquista un oro e un argento olimpico, due titoli Mondiali, due Campionati Sudamericani, cinque World League, una Coppa del Mondo e due Grand Champions Cup.

Qualificazioni Olimpiche: De Giorgi analizza il cammino dell'Italia. "Siamo arrivati in riserva. Ora dovremo discutere di date con la Lega" 

Il commento di Ferdinando De Giorgi al termine del torneo di qualificazione olimpica. “L’obiettivo che ci eravamo prefissati non è stato rag...