Qual è la tua idea di pallavolo in tre parole?
Attacco, difesa (non far cadere la palla a
terra), organizzazione di gioco
La mia idea è che in Italia si faccia una
divisione tropo netta tra pallavolo maschile e pallavolo femminile, cosa che in
altri paesi tipo USA e Brasile c’è molto di meno, basti pensare come i loro
allenatori di riferimento passino tranquillamente dal maschile al femminile
senza particolari difficoltà. Da noi vedere i nostri più grandi allenatori del
maschile allenare il femminile sarebbe qualcosa di impensabile, come peri
tecnici specializzati nel femminile passare al maschile dal momento che in
Italia sembra che pallavolo maschile e femminile sembra siano due cose diverse
l’una dall’altra. Secondo me è sempre pallavolo, certamente con alcune
differenze. La differenza più grande è come diceva tanti anni fa Velasco, la
forza, che determina delle variazioni nella tecnica tra la maschile e il
femminile. Tra settore giovanile e alto livello, la cosa che più fa la
differenza è la tecnica, che nell’altro livello c’è mentre nel settore
giovanile cerchiamo di costruire
Io penso che la tecnica comunque vada
insegnata e il problema è come insegnarla perché se ci sono carenze tecniche è
difficile pensare al medio alto livello. A mio avviso la tecnica va insegnata,
ma bisogna partire dal gioco, non bisogna partire dagli esercizi analitici
perché danno poco all’atleta dal momento che c’è poco transfert. I ragazzi non
riescono a trasferire questi esercizi nella situazione di gioco e quindi
imparano a fare bene gli esercizi ma non a giocare meglio. Dobbiamo quindi
trovare il modo di fargli fare tecnica attraverso il gioco
Nella gestione vera e propria, chiaramente va
tenuto conto dell’età e della personalità dei ragazzi. Se io vado a fare anche
una lezione di minivolley con i bambini, c’è anche lì un problema di gestione
nel senso che loro ti mettono alla prova, vedono come li comandi, cosa possono
fare e quindi a qualsiasi livello vanno attuate delle tecniche per gestire le
situazioni, anche se ovviamente le tecniche saranno diverse perché è evidente
che non posso trattare la Egonu come tratto un bambino del minivolley.
Credo che dipenda dalla mentalità rigida,
statica o dinamica di un allenatore. Io negli ultimi anni sto seguendo un
allenatore che per me è stato un esempio già quando iniziavo ad allenare tanti
anni fa, ed è Silvano Prandi. Silvano penso che abbia superato i 70 anni e
continua ad allenare perché possiede una grande capacità di cambiamento che non
dipende dall’età ma dalla mentalità della persona. Questo è fondamentale per un
allenatore. Deve saper cambiare, deve saper migliorare, studiare in
continuazione per essere sempre all’altezza della situazione e soprattutto al
tempo con i tempi. Questa secondo me è la cosa fondamentale. Se penso
all’allenatore che sono oggi e all’allenatore che ero 20 anni fa, non mi
riconosco, sono completamente cambiato. Ed è giusto così perché se facessi le
stesse cose che facevo 20 anni fa non farei bene il mio lavoro perché i tempi
sono cambiati.
Sicuramente faccio questo incontro, ma ti
dirò che la mia abitudine è quella di fare un meeting tutte le settimane, cosa
che secondo me è molto importante. Nel primo incontro, ma anche nei successivi,
quello che per me è importante è spiegare come deve giocare la squadra, i
sistemi di gioco, le competenze, tutto quello che costituisce il nostro stile.
Le prime riunioni sono quindi informative su questi tipi di sistemi, sistema di
ricezione, d’attacco, alzata, muro e difesa. Tuti i vari equilibri che ci devono
essere in una squadra.
Partiamo dal concetto che il capitano è
importante ma non è tutto. Leggevo degli scritti di Guardiola, il famosissimo
allenatore di calcio, in cui diceva che quando costruisce un gruppo, cerca
quattro pilastri, un po’ come se la squadra fosse una sedia. E quindi in ogni
squadra, così come in una sedia ci devono essere quattro buoni sostegni,
pilastri, e il capitano è sicuramente uno di quelli, ma ne servono altri tre.
Per pilastri intendo degli elementi che siano di riferimento da ogni punto di
vista e quindi non solo tecnico ma anche umano e comportamentale per tutta la
squadra perché poi tutto il resto viene da sé. E quindi ogni allenatore a mio
avviso deve cercare questi quattro pilastri, e uno di questi deve essere
senz’altro il capitano. La sua ricerca prescinde dal ruolo e dall’età. Far
scegliere alla squadra è una cosa che io non ho mai provato ma potrebbe essere
una cosa interessante, però in un gruppo che già si conosce. Il rischio che il
gruppo possa eleggere un atleta che non è adatto al compito mi rimanda all’idea
di gruppi disgregati, non uniti, per cui bisognerebbe poi mettere in campo
delle strategie per riequilibrare la cosa
Io penso che nella realtà di oggi, dove i
genitori si intromettono troppo, in tutto, compresa nella situazione sportiva,
creando dei problemi enormi ai ragazzi più che a noi allenatori, perché lo
sport deve essere un qualcosa del ragazzo e non una cosa della famiglia. Tutti
quelli della mia generazione che hanno fatto sport, ricorderanno sicuramente
che i genitori erano completamente fuori, quasi non sapevano nemmeno se noi
vincevamo o se perdevamo le partite. Lo sport era un qualcosa di nostro. Ma
questo concetto di autodeterminazione è un qualcosa di fondamentale. Io faccio
sport per me, non devo fare sport per papà, per mamma o per sentirmi
riconosciuta dai miei coetanei. Devo arrivare a fare sport per me, perché
l’autodeterminazione è un qualcosa che da una forza enorme. Per cui io cerco di
svilupparla questa autodeterminazione cercando di avere dei rapporti sempre
diretti con gli atleti e non con i genitori. E’ chiaro che un rapporto iniziale
con il genitore di un atleta minorenne c’è, per conoscersi, per definire le
cose, per definire un rapporto, ma via via che si va avanti il rapporto deve
essere sempre di più con l’atleta anziché con il genitore, il quale deve solo
fare una sorta di controllo del proprio figlio, verificando che il figlio viva
l’attività sportiva in maniera serena, divertendosi, facendo cose positive per
lui. Li però deve finire la funzione del genitore con lo sport del figlio ma
purtroppo spesso non è così, fino ad arrivare a vedere genitori che fanno lo
scout dei figli o della squadra a grande svantaggio dei figli perché non è una
cosa normale e porta delle conseguenze sullo sviluppo del ragazzo
E’ analoga nelle cose generali perché
comunque la pallavolo è uno sport di squadra e quindi dobbiamo mettere in campo
una squadra che gioca e che vince, perché sappiamo benissimo che in Italia
questo aspetto è molto importante. E’ invece molto diversa sul fatto che,
almeno per quanto mi riguarda, è importantissima la crescita individuale dei
ragazzi e quindi una parte importante della programmazione deve essere fatta in
questo senso. Bisogna studiare l’atleta individualmente e capire che cosa può
migliorare, cercando di individuare le cose che possono essere utili per il suo
miglioramento. Questo può essere fatto anche nell’alto livello ma nel giovanile
ha un’importanza maggiore. Dopodichè bisogna mettere in campo per migliorarle
effettivamente, e questa è la cosa più complessa, più difficile.
Tu vuoi che l’atleta sia consapevole del
percorso che deve affrontare, su cosa deve migliorare, oppure preferisci che
l’obiettivo tecnico venga raggiunto in maniera inconsapevole?
Su questo non ho dubbi. L’atleta deve essere
consapevole eccome. Ci sono tre tipi possibili di obiettivi. E qui entriamo in
un discorso scientifico parlando di:
-
Obiettivi imposti
-
Obiettivi condivisi
-
Obietti autodeterminati
Gli obiettivi imposti hanno una probabilità
di successo molto, molto bassa. E quindi se vuoi raggiungere un obiettivo senza
che lo atleta lo sappia, la probabilità di successo è bassissima.
Gli obiettivi condivisi hanno un livello più
alto di possibilità di successo
Gli obiettivi autodeterminati sono quelli che
hanno la maggior probabilità di successo. Ecco perché io devo portare gli
atleti non solo a condivisione ma all’autodeterminazione degli obiettivi.
L’atleta che vuole migliorare una cosa specifica e quindi sceglie lui di
migliorare quel preciso aspetto. Quando ciò avviene ho delle probabilità molto
elevate di raggiungere quell’obiettivo.
Io penso che ormai in Italia si sia raggiunto
un livello giovanile tale per cui tutte le squadre under 16/18 non ci sia una
squadra che non si alleni tutti i giorni dal momento che ormai c’è un’attività
agonistica che è quasi professionale e quindi penso ci si debba adeguare a
questo tipo di situazione. Faccio fatica a pensare che un gruppo che si allena
due, tre volte la settimana possa essere competitivo a livello nazionale. Il
giorno libero esiste, nel senso che io preferisco fare un allenamento in meno
ma farli tutti bene piuttosto che fare un allenamento in più fato male. Questo
è un concetto che rendo chiaro fin da subito alle mie squadre e quindi nel
momento in cui sono stanchi non esito a dare riposo, oltre al riposo
programmato di una volta alla settimana. Cerchiamo di stare attenti anche
all’over training, perché durante la stagione gli impegni sono tantissimi.
Detto questo però, tendenzialmente ci alleniamo tutti i giorni , tranne il
giorno della partita e un giorno di riposo settimanale. Riguardo la durata
degli allenamenti di solito le sedute sono di due ore, due ore e un quarto,
perché questo penso sia il tempo giusto, non di più. Tranne quando facciamo i
pesi perché in quel caso facciamo prima pesi e poi allenamento e quindi la
seduta si allunga complessivamente. Noi di norma facciamo due sedute di pesi a
settimana e ritengo che questo sia il minimo, per una squadra che si allena
almeno cinque volte la settimana, indispensabile per evitare di incorrere in
infortuni. Per quello che riguarda la partecipazione a campionati e tornei,
nella mia programmazione il campionato di categoria è sempre più importante del
campionato giovanile, il campionato di categoria deve essere la priorità. La
categoria la scelgo non in base all’età ma al livello, nel senso che ho delle
under 16 che giovano in C e altre che giocano in B2, in base a quelle che sono
le loro capacità. Nella mia idea il campionato giovanile viene dopo. L’ottimale
sarebbe fare due campionati, ne uno, ma neanche tre o quattro, o per lo meno
due devono essere i campionati principali. Ai tornei partecipiamo però non li
considero così importanti. Con l’under 18 di norma facciamo un torno a Pasqua,
perché quello è il periodo dove si entra nelle fasi più importanti mentre con
l’under 16 ne facciamo tre, per dargli qualche esperienza in più di gioco. I
tornei, dal momento in cui in pochi giorni si giocano tante partite, di cui
spesso una al mattino e una al pomeriggio, ricrea una situazione molto simile a
quelle delle finali nazionali e quindi può essere utile a tal scopo. Però in
conclusione posso affermare che la crescita vera dei ragazzi la otteniamo nei
campionati di categoria. Se gioco in una B1 o B2, con obiettivi alti e quindi almeno
quello di mantenere la categoria, questo è il vero momento di crescita
dell’atleta e poi, a fianco di questo, c’è sicuramente l’attività
giovanile.
Quali figure tu ritieni imprescindibili per la gestione
di un gruppo giovanile di alto livello?
Il problema dello staff è un problema che
riguarda un po’ tutte le società per un discorso legato ai budget. Noi siamo 4
allenatori e gestiamo la B1, la B2 e le due serie C aiutandoci un po’ l’uno con
l’altro. Credo sia molto importante avere un preparatore atletico e qualche
rilevazione statistica perché queste ultime sono comunque importanti. Noi
quest’anno stiamo provando a lavorare con l’uso del feedback e quindi con l’uso
della ripresa durante l’allenamento, riprendendo alcune situazioni tecniche dei
ragazzi che giocano e poi gliele facciamo rivedere. Penso che quella del
feedback sia la chiave principali per lavorare sulla tecnica con i ragazzi. È
una cosa che fatta bene richieste mezzi tecnologici importanti, ma noi, pur con
i mezzi che abbiamo, dobbiamo trovare il modo di dare ai ragazzi più feedback
possibili perché è una cosa importantissima e quindi anche un telefonino, un IPad,
vanno benissimo per dare più feedback possibili
La programmazione per me è sicuramente
settimanale. Quello che rimane stabile sono gli obiettivi tecnici dei ragazzi,
che possono poi modificarsi durante l’anno, ma che di solito restano fissi per
tutto l’anno. Io faccio quindi un programma settimanale di lavoro e una cosa
importante che ho cambiato negli anni è che do molto spazio all’autovalutazione
dell’atleta. L’atleta alla fine della partita mi manda una sua autovalutazione
della partita che ha fatto e che consiste nell’indicare le cose che si sente di
aver fatto bene e di indicare una zona di miglioramento, cioè una cosa che
avrebbe voluto fare meglio in quella partita rispetto a come l’ha fatta e poi
fornirsi dei piani di azione per come migliorare queste cose. Tutto questo ci
porta verso quel concetto di autodeterminazione di cui abbiamo già parlato,
perché per fare una cosa di questo tipo ci vuole grande consapevolezza da parte
dell’atleta, al fine di strutturare degli obiettivi e stilare un piano di
azione per raggiungerli. In questa fase le ragazze arrivano anche a dire quello
che gli piacerebbe fare meglio nella prossima partita e quindi in che modo
devono esercitarsi al meglio per raggiungere quell’obiettivo. E io queste cose
cerco di tenerle presente nella programmazione settimanale. Mi appunto le cose
che vengono dall’autovalutazione e cerco di tenerne conto nella programmazione
del lavoro settimanale
Dal punto di vista del format segui
lo schema rigido come si fa nell’alto livello, ovvero il lunedì si fa tecnica
pura il martedì situazione di gioco, il venerdì la rifinitura pre-gara, oppure
sei abbastanza elastico?
Questa è una delle cose in cui sono cambiato.
Ero esattamente così, anche perché non sono molto creativo, faccio fatica a
cambiare le cose, è un mio limite, sono un perseverante ma non sono un
creativo. Questa cosa però ho cercato di modificarla perché se parli con
qualsiasi atleta e gli chiedi se gli piace una situazione settimanale in cui
sai già che il lunedì fai battuta – ricezione, il martedì fai muro e magari con
lo stesso esercizio, e così via, chiunque ti dice che è una cosa pessima e
quindi ho cercato di cambiare questa cosa. E quindi, anche se con molto fatica
perché non mi viene spontaneo, cerco di proporre sempre cose diverse, magari
mantengo lo stesso obiettivo ma cero di cambiare sempre l’esercizio
Il discorso di collegialità con i giovani è
importante. In fase inziale, ma anche in altri momenti. Una squadra di alto
livello ad esempio ha già dei momenti di collegialità quando fanno le
trasferte, nei ritiri, ecc… Con i giovani questi momenti non ci sono perché le
trasferte sono tutte in giornata e quindi siamo noi che in qualche modo
dobbiamo creare questi momenti. I tornei ad esempio, sono proprio dei momenti
di collegialità per una squadra giovanile. Detto questo, posso dire che la
doppia seduta non mi entusiasma. Ma questo anche se allenassi in serie A con
delle atlete professioniste, la farei poco, perché preferisco fare un
allenamento al giorno fatto molto bene piuttosto che due allenamenti fatti
così, così. Quindi tendenzialmente preferisco lavorare con un allenamento al
giorno fatto bene
Io sono uno che delega molto e quindi non ho
difficoltà a farlo. Mi capita con i miei assistenti di dirli “prendi quella
ragazza e lavoraci in difesa”, delegando completamente a loro questi aspetti.
Mi piace condividere molto con gli allenatori, così come con la squadra.
Abbiamo un gruppo Watts app con i coach e un gruppo con le ragazze e io sempre
metto l’allenamento in tutti e due i gruppi e quindi l’allenamento è a
conoscenza preventiva sia per gli atleti che per lo staff, e condivido tutte le
cose che è possibile condividere, sia con gli atleti che con gli allenatori
perchè credo che questa sia la strada migliore.
Il problema dell’errore è una cosa
importantissima. Io alle mie ragazze dico “dovete sbagliare” e non “potete
sbagliare” perché sbagliando s’impara ma non sbagliando non si impara. Ci
sono tanti esempi di ragazzi che per paura di sbagliare non imparano e questo è
completamente sbagliato. Dobbiamo ricostruire il concetto di errore per far
capire al giovane che deve buttarsi, deve fare le cose nuove per poter
apprendere cose nuove. Con la squadra parlo infatti pochissimo di errore, al
massimo parlo di efficienza che sembrano due cose simili ma non lo sono. Faccio
un esempio: se dico “cerchiamo di avere in battuta un’efficienza maggiore di
zero” significa che se io ho fatto due errori in battuta devo fare due ace. Che
è diverso da dire “non sbagliare la battuta”. Parlare di efficienza significa
che io devo fare due punti e non che non devo sbagliare e che il numero dei
punti deve essere superiore al numero degli errori di un certo tot. Devo quindi
vedere l’errore come un processo di miglioramento, un qualcosa che devo
analizzare per migliorarmi ancora
Battuta e ricezione a basta assolutamente no,
nel senso che facciamo un allenamento vero. Inoltre, negli ultimi anni io ho
sempre fatto allenamento a squadre miste, e non titolari contro riserve che per
tanti anni è stato un dogma per il mio modo di fare allenamento. Ho studiato
alcune scuole che non facevano così, ho provato e ho trovato dei vantaggi
straordinari, però il venerdì rimettevo titolari contro riserve. Quest’anno,
anche parlando con le ragazze ho capito che anche al venerdì si può fare come
negli altri giorni. La mia programmazione settimanale prevede di norma una
prima parte di settimana con esercizio aspecifici, nel senso che non hanno lo
stesso ritmo della partita mentre nella parte finale della settimana faccio
esercizi di gioco specifici nel senso che hanno lo stesso ritmo della partita.
Questa per la mia metodologia è la maggior differenza tra gli allenamenti di
inizio e di fine settimana
Veniamo al giorno della partita. Prima di
iniziare il riscaldamento sei abituato a parlare con la squadra? Fai un
discorso motivazionale? Tecnico? Tattico? Non parli con le ragazze? Qual è la
tua routine?
Prima della partita facciamo la riunione
tattica. Abbiamo già fatto video in precedenza e riassumiamo le cose più
importanti della partita, partendo dalla macro-tattica e quindi dagli elementi
fondamentali per quella partita arrivando alla tattica più specifica, quella da
fare rotazione per rotazione. Ultimamente coinvolgo molto gli atleti facendogli
delle domande, chiedendo a loro cosa succede in quella specifica rotazione, e
lo faccio soprattutto con i più giovani che sono quelli che tendono a subire
passivamente la routine del pre-gara. Non lo faccio per interrogarli, anche se
poi viene fuori una sorta di interrogazione, ma per coinvolgerli dal momento
che sono loro che devono andare a giocarsi la partita. Discorsi motivazionali
non ne faccio. Cerco di farmi vedere molto tranquillo e di ribadire che abbiamo
una nostra filosofia di gioco e che dobbiamo cercare di realizzarla in tutte le
partite.
Gestione tattica della gara. Se parliamo
di una giovanile, e non di una serie B, ma giovanile contro giovanile. In che
misura ritieni che sia importante una preparazione tattica di una gara che
tenga conto delle caratteristiche dell’avversario? La tua idea è quella
soltanto di imporre il tuo gioco oppure di imporre il tuo gioco ma sulla base
di un’analisi dell’avversario? Che equilibrio dai a questi due aspetti?
Credo sia importante differenziare le
categorie. Un under 14 non facciamo nessun’analisi dell’avversario e pensiamo
solo a sviluppare il nostro gioco. In under 16 e 18, generalmente, fino alle
finali non facciamo preparazione delle partite, non facciamo video. Se
arriviamo alla finale regionale invece un pochino la partita la prepariamo,
però diciamo che non è una preparazione approfondita se non dando qualche
indicazione di massima. Se invece arriviamo alle finali nazionali, li operiamo
come se fossimo una quadra seniores, anche perché di norma sono giocatrici che
hanno già fatto campionati di serie B1 o B2 e quindi sono abituate a questo
tipo di preparazione della gara
Nel momento in cui fate un’analisi delle
avversarie, quali sono le informazioni che dai alle tue giocatrici? Tra le
centinaia, migliaia di informazioni tattiche, quali informazioni ritieni
imprescindibili?
La cosa fondamentale a mio avviso è la
macro-tattica. Ci sono due, tre cose, che riteniamo fondamentali per affrontare
quella specifica partita (che poi in partita possono cambiare perché a volte le
partite prendono delle pieghe completamente diverse da come ce le eravamo
immaginate). Tre cose del nostro cambio palla importanti e tre cose per nostra
fase break importanti. Questa è la priorità. Poi se riusciamo scendiamo anche
nei dettagli. Esempio: vado a giocare contro una squadra nella quale vogliamo
mettere in difficoltà un determinato giocatori in ricezione e fermare un altro
giocatore in attacco. Questi possono essere due punti della macro-tattica.
Quella partita ce la giochiamo su quelle cose li. Almeno in partenza. Poi,
possono essere modificate perché magari il giocatore che volevo fermare in
attacco quel giorno li si infortuna e non gioca, devo ristrutturare la
macro-tattica in base alla partita che si sta evolvendo in maniera diversa.
Quanta autonomia lasci alle tue
giocatrici? Parlavo con un allenatore di nazionali giovanili estere e mi diceva
che fino ad una certa età ordina due traiettorie d’attacco e la giocatrice deve
fare quella traiettoria indipendentemente dal muro e dalla difesa. Altri
allenatori invece lasciano molta più autonomia. A tuo avviso, bisogna trovare
un equilibrio o dipende dall’età dell’atleta?
Secondo me bisogna sviluppare autonomia
perché questo è uno degli elementi basilari per la crescita di un atleta. E
quindi non sono assolutamente d’accordo con quella linea di pensiero. IO dico
sempre che voglio formare dei leader e non dei giocatori e quindi devo fargli
sviluppare autonomia fin dall’under 13 e 14. Quindi devono conoscere, devono
sapere, devono prendere decisioni. E’ chiaro che è molto importante creare una
consapevolezza nel ragazzo. Deve sapere effettivamente quello che sta facendo.
Esempio: i nostri ragazzi sanno quali sono le traiettorie d’attacco con cui
fanno più punti in una partita? Devo creare queste consapevolezze. Tornando al
discorso del feedback devono avere gli strumenti per conoscere loro stessi e
anche la loro squadra. E questi strumenti li devono portare a prendere delle
decisioni. Noi guideremo il loro apprendimento però poi devono decidere per
conto loro. Una sorta di consapevolezza guidata.
Nell’altissimo livello sappiamo esserci
una ricerca sempre più spasmodica al dato statistico, all’analisi statistica
dell’avversario, si scoutizza la distribuzione del palleggiatore nei primi 10
punti, negli ultimi 5, c’è quasi un’ossessione da questo punto di vista.
Secondo te, nella pallavolo giovanile ha senso questo gioco di strategia oppure
lo possiamo rimandare ad altre età?
Ti racconto un aneddoto. Alcuni anni fa andai
ad ascoltare Riccardo Giuliani, quando allenava la Lube. Affrontando un
discorso sulla fase break disse all’incirca queste parole: facciamo una
preparazione quasi maniacale della partita. Abbiamo due scout che analizzano
tutte le partite giocate dall’avversario fino a quel momento. Sapete quanto
questa cosa incide in un set? Su 25 punti parliamo di 1, 2 punti. Noi la
facciamo, perché nell’altissimo livello, 1,2 punti possono essere quelli
decisivi, però parliamo veramente di una percentuale bassissima. Ecco,
questa analisi per me è stata una cosa molto illuminante perché penso che sia
proprio come ha detto lui. Oggi sentiamo sempre più parlare di gioco dentro il
sistema e di gioco fuori dal sistema, una terminologia inventata dagli
americani, ma il gioco per la maggior parte delle volte è fuori dal sistema. Io
devo abituare la squadra a giocare fiori dal sistema e non dentro al sistema.
Se mi abituo a giocare solo come se fossi sempre dentro il sistema non ne esco
fuori, avrò una squadra che vincerà poco perché tutte le volte che si creeranno
delle situazioni alternative (es: stabiliamo che noi battiamo in zona 5 perché
abbiamo studiato che quando battiamo in zona 5 il palleggiatore se ha la
ricezione doppio positiva alza in zona due, se ha la ricezione spostata avanti
gioca in 4. Ma quante volte in una partita si crea quella situazione che ho
studiato esattamente così come l’ho studiata? E invece quante volte in quella
condizione li si creano altre situazioni che io devo risolvere lo stesso?).
Quindi secondo me quello che fa la differenza è come la squadra sa risolvere le
altre situazioni, non come sa risolvere quella situazione li.
Prima dicevamo che l’attacco è quello che
comanda. Poi, per me che sono uno della vecchia scuola, la difesa è sempre il
termometro di una squadra, ma la realtà è che se non la metti giù non vinci e
quindi l’attacco è sempre un elemento importante e le squadre vanno costruite
con gli attaccanti e poi tutto il resto si costruisce di conseguenza
In futuro tu vedi questo aspetto che andrà
rafforzandosi o potrà esserci qualche altro aspetto che diventerà
preponderante, ad esempio la fisicità?
L’attacco è una conseguenza della fisicità.
Se penso alla pallavolo, maschile e femminile, degli anni 80 con quella del
2018, le giocatrici di quell’epoca oggi non riuscirebbero a giocare. E questo
per un problema di fisicità. Non che non erano brave, ma erano giocatrici con
fisici normali, con altezze di salto normali, mentre adesso è praticamente
impossibile giocare ad alto livello se non hai dei parametri fisici di un certo
tipo, soprattutto nei ruoli di attaccante e di centrale.
Le squadre giovanili di alto livello, tu
pensi che si debbano mantenere su uno stile di gioco semplice e scolastico e
quindi con soluzioni d’attacco standardizzate e limitate, privilegiando
l’esecuzione tecnica, oppure fin da subito pensi sia meglio cercare un gioco vario,
simile a quello delle squadre seniores?
Non sono assolutamente dell’ide a che prima
dobbiamo insegnare la palla alta e poi quando saranno più grandi impareranno la
super e le altre palle veloci. Così come da giovani dobbiamo insegnare al
palleggiatore ad alzare la palla alta e poi da grande imparerà ad alzare le
altre traiettorie più velici. No, non sono convinto che sia così e tra l’altro
penso che ci sia poco transfert tra le due cose, cioè che uno che impara la
palla alta poi imparerà con facilità ad attaccare la palla super. E quindi a
mio avviso il gioco va insegnato così com’è. Se ci sono traiettorie veloci
perché servono traiettorie veloci, il palleggiatore deve imparare da subito ad
alzare traiettorie veloci. E’ chiaro che deve imparare ad alzare anche la palla
alta perché in alcune situazioni d’emergenza o di difficoltà dell’attaccante
deve essere in grado di gestire anche quel tipo di pallone li.
Ti ho fatto questa domanda perché mi è
capitato di assistere durante finali nazionali, quindi il massimo livello della
pallavolo giovanile italiana, a partite in cui giocavano due squadre con
concetti di gioco opposti. Una solo palla alta e l’altra tutte palle veloci. E
se sono tra le prime dieci d’Italia vuol dire che entrambe funzionano, e quindi
da lì sorge il mio dubbio su chi ha torto e chi ha ragione.
Ritengo sia un po’ forviante guardare solo il
risultato finale per valutare quale è la filosofia migliore tra le due. La
storia ci insegna che vincono tutti e perdono tutti e quindi se si va dietro solo
a quelli che vincono si rischia di cambiare ogni volta tutto e invece io penso
che la filosofia di un allenatore debba nascere da convinzioni ben più radicate
che non la vittoria o la sconfitta in una manifestazione. Questo ce lo insegna
anche l’alto livello mondiale. Quattro anni fa gli USA vinsero il mondiale con
Kiraly mentre adesso lo hanno vinto le serbe. E allora seguiamo la scuola serba
perché ha vinto, e non più la scuola USA? Secondo me bisogna studiare bene le
varie scuole e cercare di capire i lati positivi di ognuna indipendentemente
dal fatto che in una singola manifestazione possano vincere o perdere.
Sicuramente ci sono degli elementi chiave che
in ogni fondamentale mi danno l’idea di quelle che secondo me sono le cose
importanti. Poi è chiaro che le cose si modificano nel tempo e quindi ogni anno
possono essere rimodellate. Penso però che la crescita dell’atleta debba essere
a 360 gradi perché la realtà è che la crescita di un atleta non è solo tecnica.
E’ chiaro che l’aspetto tecnico è fondamentale ma a volte ci sono cose che
limitano la crescita tecnica, come la crescita mentale, il modo in cui uno
affronta la pratica sportiva, che possono creare delle interferenze enormi che
vanno a danneggiare la prestazione. C’è una formula che non è mia ma che uso
molto: la prestazione di un atleta è data dal suo potenziale meno le
interferenze. Questa è una regola dei mental coach ed è verissima. E quindi
noi dobbiamo lavorare moltissimo sull’aumentare il potenziale ma anche sul
ridurre le interferenze
Ci sono degli indicatori, e se sì, quali
sono, che durante la stagione ti aiutano a capire se il progetto tecnico che
hai pianificato sull’atleta sta procedendo in maniera efficacie? L’indicatore è
la prestazione presa a se stante, i dati statistici di efficienza o di
efficacia, un feedback anche emotivo? Quali sono gli indicatori per te?
Noi dobbiamo avere un feedback costante del
lavoro che facciamo, e anche su questo ho provato a cambiare molto negli ultimi
anni, provando a ridurre il tempo di studio della squadra avversaria e aumentare
quello di studio della mia squadra e quindi dei miei giocatori. Non basta
analizzarli da un punto di vista statistico. Se ho un atleta che è sceso di
rendimento, devo capire il perché e quindi devo verificare la sua prestazione,
come schiaccia, che tipo di errori fa, e quindi quando riguardo la partita
cerco di classificare tutti glie errori dei giocatori. Cerco di avere dei video
dei miei giocatori con gli errori che fanno in battuta, gli errori che fanno in
attacco, in modo da analizzarli e cercare di trovare delle strategie per
migliorarli. A loro cerco di far passare solo i feedback positivi e quindi gli
faccio rivedere i punti che fanno in battuta, in attacco, cerco di fargli
rivedere quello che fanno bene per fargli rimanere impressa la traccia memonica
giusta, quella con il movimento fatto correttamente. Altra cosa che faccio è
analizzare il modo in cui fanno punto i nostri attaccanti. Quali sono le
traiettorie che utilizzano maggiormente. Il dato ottenuto poi lo condivido con
loro al fine di cercare di potenziare ancor di più queste cose che già fanno
bene e anche di trovarne delle nuove. L’attaccante che fa punto sempre con la
parallela e usa poco la diagonale stretta, lo farò allenare maggiormente sulla
diagonale stretta, senza trascurare la parallela. Quindi trovare nuovi stimoli,
per avere nuovi equilibri ed una crescita effettiva
Nel caso una giocatrice non abbia
raggiunto nei tempi prefissati l’obiettivo che ti eri preposto e che avevi
condiviso come lei, come gestisci con l’atleta il “fallimento”? Soprattutto
quando il “fallimento” lo riscontriamo a medio-lungo termine, tipo a fine
stagione.
Questa è una bellissima domanda perché, per
tanti motivi, oggi i giovani faticano ad accettare i fallimenti e noi dobbiamo
insegnare loro che l’errore e il fallimento deve essere sempre di stimolo per
migliorare. L’errore mi serve per capire cosa ho sbagliato e riprogrammare il
mio colpo successivo. La sconfitta mi deve servire per capire che cosa ho
sbagliato e che cosa devo migliorare nella partita successiva. Creando proprio
insieme al giovane una filosofia di miglioramento continuo in cui le prestazioni
sono step di questo processo di crescita. Per cui io lavoro costantemente per
migliorarmi. Analizzo il fallimento e traggo spunto per un miglioramento
successivo, in ogni caso. Che cosa abbiamo sbagliato? In cosa dobbiamo
migliorare nel prossimo periodo? E quindi riprogrammare una nuova fase di
miglioramento.
I primi minuti in cui fanno palla a coppie a
mio avviso non è allenamento. Glielo lascio fare, perché è una cosa che gli dà
sicurezza, li fa star meglio, ma non è allenamento. Questo con i gruppi più
grandi. Con le under 14 non lo faccio fare e li indirizzo fin da subito su cose
più utili, con l’utilizzo della rete o comunque con esercizi diversi che la
palla a coppie che secondo me ha una valenza tecnica pari a zero.
C’è stato un momento nella tua carriera da
allenatore in cui ti sei detto: “sono stato veramente bravo”. Non
necessariamente a fronte di un risultato ma magari quando hai visto tue
giocartici giocare poi ad alto livello
Per tanto tempo penso di essermi fatto troppi
complimenti nel senso che come accade a molti giovani allenatori ero molto più
concentrato su quello che pensavano di me piuttosto che sull’essenza del mio
lavoro. Dopo tanti anni questa cosa è cambiata completamente. Alleno per il piacere
di farlo e per migliorarmi, e quindi più che dirmi che sono bravo cerco di
capire cosa fare per essere ancora più bravo
Si, è capitato, perché è una cosa normale.
Non possiamo andare d’accordo con tutti. Ho cercato di gestirla facendo in modo
di arrivare in fondo alla stagione. Oggi la mia ricerca è volta sempre di più
ad avere atlete con la mente dinamica, pronte ai cambiamenti, a migliorarsi, a
fare cose nuove, a differenza di quegli atleti più statici che preferiscono
fare solo ciò che sono già capaci di fare. In fase di scelta degli atleti tengo
conto di questo aspetto.
Ti è mai capitato di fare scelte più
basate su un risvolto umano che tecnico? Esempio schierare una giocatrice più
perché “se lo meritava” magari per il suo impegno, andando contro a quello che
era l’interesse della squadra? O al contrario, hai tenuto in panchina una
giocatrice “antipatica” anche se meritava di giocare per l’utilità di squadra?
Questo direi di no, nel senso che cerco
sempre di mettere in campo quelle che reputo le giocatrici migliori. Se per
assurdo mi dovesse capitare di avere una discussione con un’atleta, se
quell’atleta merita di stare nel sestetto io la schiero. Cerco sempre di
mettere in campo le giocatrici che in quel momento sono più utili per la
squadra.
Si parla sempre più spesso di mental
coach. E’ una figura che tu prevedi nel tuo staff di una squadra giovanile?
Cosa ne pensi?
Se parliamo di un professionista competente,
penso possa essere di grande aiuto. Personalmente collaboro con un metal coach
da un paio d’anni e molte cose che sto proponendo, tipo le autovalutazioni
vengono fuori da un lavoro comune e l’esperienza che sto facendo in tal senso
la ritengo molto utile.
Sul discorso dell’under 19 condivido
pienamente perché siccome molte squadre in Italia prendono giocatrici fuori
sede e al termine dell’under 18 le lasciano, siccome che l’under 18 corrisponde
con la quarta superiore, succede che le ragazze si trovano a dover fare il quinto
anno di scuola in una città diversa rispetto a quella dove hanno fatto il quarto
anno. Detto questo mi vengono in mente due cose. La prima è che se pensi che la
rete a 2,43 per i maschi sia troppo bassa, pensa che nell’under 13 femminile la
rete è a 2,15. Questa penso che sia una cosa demenziale, perché è assurdo che
tra un bambino di 13 anni e un campione senior ci siano solo 28 centimetri di
differenza riguardo l’altezza della rete. Chi ha fatto queste scelte non ha la
minima conoscenza di cosa voglia dire insegnare la pallavolo in quella fascia
di età. Io quando vado in palestra con le under 13 metto la rete a 1,75/1,80,
proprio per cercare di farle giocare come se fossero Zaitsev. E se c’è una
ragazzina che già in under 13 è alta 1,85 bisogna togliere la ragazza dal
gruppo under 13 e portarla nella squadra della under 14 o under 16. Sta al buon
senso dell’allenatore non fare allenare un talento assoluto con l’under 13 ma
farlo allenare con un altro gruppo. E quindi la prima cosa che farei è che
abbasserei la rete nel giovanile femminile under 13 e under 14. Nell’under 13
maschile la rete è 2,05 e nell’under 13 femminile è 2,15: è una cosa che non ha
senso. La seconda cosa è relativa al fatto che i giovani talenti devono fare il
loro percorso con i più grandi, non con i pari età, che debbano confrontarsi
con la realtà. Quindi creare delle strutture dove i giovani hanno il posto
fisso sicuro e garantito, dove tutto è ovattato, programmato, pianificato, non
sia utile per formare la mentalità da leader che è quella che piace a me.
Per finire ti chiedo un consiglio da dare
agli allenatori che ci stanno ascoltando:
Facciamo divertire i nostri ragazzi,
sviluppando la loro creatività, facendo allenamento con il sorriso, sia noi che
loro. Quando parlo di creatività intendo sviluppare la creatività degli atleti:
non aver paura di sbagliare, cercare sempre qualche situazione nuova, dei colpi
nuovi, non codificare tutto con delle regole rigide e immutabili. Che poi è
quello che ci insegnano i campioni, mi viene in mente Ngapeth, Cristiano
Ronaldo, Messi. I campioni non fanno delle cose rigide ma fanno delle cose da
campioni. E noi dobbiamo cercare di farle fare anche ai nostri giovani le cose
da campioni, perché sicuramente questa è la strada migliore per svilupparli
nella loro pienezza
Questi i link attraverso i quali potrete riascoltare l'intervista in oggetto sul canale COACH FACTOR della piattaforma YouTube
https://youtu.be/tFk1sbV7FyI
https://youtu.be/kZp1N-Cyh8o
https://youtu.be/maWAYH6dTA4
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