In questo articolo dedicato alla tecnica voglio parlare di un tema molto dibattuto nel mondo della pallavolo giovanile: come bilanciare l’insegnamento della tecnica con lo sviluppo delle abilità in situazione di gioco.
Negli ultimi anni si sente sempre più spesso dire che, soprattutto a livello giovanile, bisognerebbe ridurre le ore dedicate all’allenamento tecnico “puro” a favore di un approccio più pratico, basato sulle dinamiche di gioco vero e proprio. L’idea è che imparare dentro la partita favorisca un apprendimento più naturale e funzionale. Ma è davvero così?
Secondo la mia esperienza, la tecnica è la base fondamentale, senza la quale è molto difficile pensare di far crescere un atleta fino a livelli medio-alti. Il vero tema non è “se” insegnare la tecnica, ma “come” farlo in modo efficace.
Spesso il problema sta proprio nell’approccio: esercizi troppo analitici, svolti in modo isolato e lontano dalla realtà di gioco, si rivelano poco trasferibili. I ragazzi imparano a svolgere bene l’esercizio, ma faticano a portare queste abilità nel contesto dinamico della partita. Per questo il punto di partenza dovrebbe sempre essere il gioco stesso.
Il gioco non è solo la meta, il risultato finale, ma anche la guida che ci indica quali abilità e quali aspetti tecnici dobbiamo sviluppare. Giocare permette agli atleti di capire quali “strumenti tecnici” servono per risolvere le situazioni reali, insegnandoli in un contesto di spazio e tempo che replica la realtà.
Per fare un esempio pratico, prendiamo il bagher, fondamentale cruciale nel nostro sport. Spesso nel giovanile si insegue un ideale “perfetto”, ovvero arrivare sempre dietro la palla e spingere con le gambe. Questa è una tecnica importante, ma non sempre è possibile metterla in pratica, soprattutto nei settori giovanili dove il livello della battuta è già molto elevato e la palla arriva veloce. Di fatto, bisogna insegnare anche il bagher “fuori dal corpo”, con la capacità di modulare la spinta, costruire angoli e “sentire” la palla con la spalla e le braccia, tutte cose che richiedono sensibilità e consapevolezza tecnica specifica.
Questo significa che invece di insegnare la tecnica in modo rigido e sequenziale – prima solo gambe, poi solo braccia – bisogna integrarla, sempre in relazione alle situazioni di gioco reali. Questo approccio aiuta gli atleti a interiorizzare i gesti, a capire quando e come usarli nelle partite.
Lo stesso discorso vale per altri fondamentali come il palleggio. Per esempio, nel settore giovanile si predilige ancora il palleggio “trattenuto”, perché si pensa che sia importante la tenuta della palla nella mano. In realtà, ad alto livello la qualità del palleggio si valuta dalla velocità di uscita della palla dalla mano e dalla precisione del gesto, dove il lavoro delle dita e il rilascio devono essere molto fluidi e rapidi.
Quindi, qual è il giusto mix tra lavoro analitico, sintetico e globale nella settimana di allenamento?
Sono convinto che a livello giovanile conviene puntare ancora molto sul lavoro analitico, per costruire una solida base tecnica. Naturalmente senza trascurare momenti di gioco e situazioni più globali, ma sempre in un percorso che parte dalla consapevolezza tecnica per poi arrivare all’integrazione nel gioco vero.
Può essere una buona idea a volte di lasciare maggior spazio al gioco “libero”, ma ho riscontrato che ciò migliora le capacità ludiche e di lettura del gioco, ma a volte a scapito di quei fondamentali tecnici che invece per crescere e competere ad alto livello devono essere curati con attenzione.
Questo significa trovare un equilibrio, che ovviamente varia anche in base al gruppo che si ha a disposizione. Nelle prime fasi di crescita, la tecnica deve prevalere, perché senza strumenti tecnici non si può giocare bene. Man mano che la stagione procede, e la padronanza tecnica aumenta, si può iniziare a proporre più lavoro di tipo globale, con situazioni di gioco sempre più complesse e specifiche.
A livello professionistico, alcuni allenatori stanno sperimentando modelli di allenamento che alternano lunghe fasi di gioco ad esercitazioni tecniche mirate, per correggere errori emersi nelle partite. Questo perchè alcune situazioni tecniche molto specifiche – pensate, per esempio, alla difesa in compressione – richiedono necessariamente un lavoro analitico puntuale. Queste capacità difficilmente si sviluppano senza ripetere esercizi specifici fuori dalla situazione di gioco.
Quindi è difficile sposare una teoria che propone solo lavoro globale e situazionale.
In conclusione, il mio consiglio è chiaro: la tecnica si insegna, ma serve farlo in modo funzionale al gioco, partendo dal contesto reale e poi scomponendo i gesti per affinare la qualità. Non bisogna fossilizzarsi su metodi rigidi, ma essere flessibili, sapendo correggere e accompagnare gli atleti secondo le loro necessità, seguendo un percorso che prima costruisce la base tecnica e poi la trasferisce al campo. Un approccio equilibrato e integrato, che dia spazio al gioco senza dimenticare le basi, è la chiave per far crescere davvero i nostri giovani atleti.
Grazie per avermi seguito questo Angolo della Tecnica
Filippo Vagli
Allenatore FIPAV terzo grado
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