Per il quinto
anno di fila il tecnico protagonista a Milano per un’intera giornata di dialogo
e formazione. Organizzato da Performance Strategies, società leader nella
formazione orientata al business
Cinquecento
manager in presenza, altre 1200 persone collegate in streaming. Per il quinto
anno di fila Julio Velasco è protagonista a Milano per un’intera giornata di
dialogo e formazione. Dalla mattina a tardo pomeriggio in un’eterna parabola
fra sport e performance. Il linguaggio della Leadership: come coltivare la
sfida, innescando i meccanismi che portano al potenziamento delle performance,
organizzato da Performance Strategies, società leader nella formazione
orientata al business, fondata e diretta da Marcello Mancini e Sara Pagnanelli
(www.performancestrategies.it).
DAL CALCIO AL
VOLLEY— E un Velasco istrionico
trasferisce ai dirigenti aziendali la sua esperienza sportiva: da quella
giovanile in Argentina quando giocava a calcio. “Potere e volere è una
gigantesca cavolata, se fosse vero io sarei diventato il numero 10
dell’Estudiantes di La Plata, la mia squadra di calcio del cuore. Invece non
avevo quelle capacità e nella vita ho fatto molto altro e tutt’altro. Perché da
ragazzo ho capito subito che c’era gente che sapeva giocare a calcio meglio di
me. Questo non mi ha impedito di trovare la mia strada...”. Fino alla sua
ultima sua avventura sportiva, il Mondiale under 21 vinto dall’Italia a
Cagliari qualche giorno fa.
LA PAURA DI
PERDERE— “La mattina prima della finale,
un giocatore è venuto a parlarmi raccontandomi come fosse molto nervoso, “ho
paura perdere”, mi ha confidato. Quel gesto era quello di un ragazzo con grande
personalità e quello spunto di grande tensione personale mi ha dato la
possibilità senza parlare del caso specifico, per portare invece il discorso a
livello generale, trasferendolo a tutta la squadra prima della partita. Tirando
fuori prima il tema della paura di affrontare l’avversario o la paura di non
raggiungere un risultato. Facendolo diventare un patrimonio di tutti”. Velasco
riesce a portare nel mondo delle aziende gli strumenti per fare gruppo, per
esaltare la mentalità vincente, ma anche per capire che è necessario affrontare
la realtà come è, non come vorrei che fosse. Pragmatico, autoironico, ma anche
affascinante a chi lo sente parlare per l’ennesima volta. Alcuni messaggi
resistono agli anni. Dai primi anni 90 fino ai giorni nostri. Ancora
straordinariamente attuali. Il linguaggio è chiaro e fluido come l’acqua. E lo
capiscono tutti, anche chi non conosce di sport. Perché Velasco trova la
maniera di uscire dai luoghi comuni che di solito popolano il mondo sportivo. E
scava nelle nostre debolezze per trovare soluzioni: con alcuni dei suoi cavalli
di battaglia che ancora oggi sono un caposaldo di questo sport.
MAI
ARRENDERSI— Come la cultura degli
alibi, quella teoria di tante piccole scuse che volevano sempre spiegare perché
non arrivava un risultato. O la sindrome della linea gialla, quando l’Italia
(del volley anni 90) andava a giocare in Unione Sovietica, contro l’Urss. “Ogni
tre parole in quella trasferta tutto faceva schifo nei nostri giudizi verso il
loro mondo. Dal cibo all’igiene, ma poi quando andavamo in campo (appunto
all’interno della linea gialla) i sovietici diventavano imbattibili per gli
italiani”. “Prima di tutti i grandi risultati che ho ottenuto nella mia vita,
non solo sportiva, qualcuno mi aveva detto, questo non si può fare, è
impossibile. Questa è un’altra cosa che non si può sentire. Perché tutto posso
accettare su un campo, tranne che mollare. Oggi si sente sempre “non mollare”,
è diventato uno slogan, ma la differenza è farlo veramente. Farlo nei giorni
buoni o nei giorni cattivi. Quando non ti riesce nulla. Quando tu puoi perdere,
ma non puoi scendere sotto un certo livello. Non arrendersi. Mai”. E i manager
interagiscono trovando nelle parole di Velasco una risposta alle loro domande
(o dubbi) quotidiani, trasportando la parabola dello sport nel mondo del
lavoro. “Una volta lavoravo con la psicologa dello sport Bruna Rossi che
prendeva appunti durante un allenamento, le chiedo che cosa scrivesse. E lui mi
rispose che annotava con chi parlavo di più. Il palleggiatore era quello con
cui mi fermavo maggiormente, mentre Andrea Gardini quello con cui parlavo meno.
Perché lui era molto auto-esigente e non ne aveva bisogno. E lei mi disse
'Tutti hanno bisogno di una parola, se non hai nulla da dirgli inventalo, ma
parla anche con lui'”.
IMPARARE,
SEMPRE— Poi ancora l’esigenza di
continuare a imparare, sempre. Ed educare a imparare anche in età adulta. La
parabola dell’attore comico. “E’ necessario sempre essere ottimista, non
ottusamente ottimista, ma credere di poter cambiare le cose. Il più bel
complimento che mi ha fatto, molti anni dopo, Luca Cantagalli “Julio fa credere
a tutti di poter essere un grande campione”. Quando vai in palestra devi
mettere la maschera e devi essere positivo, anche se a casa hai un figlio che
sta male o hai problemi con la moglie. Come il comico che deve fare ridere
anche quando ha problemi molto gravi nella sua vita. Questo deve fare
l’allenatore. Fare vedere che tu sei convinto che si possa raggiungere
quell’obiettivo. Per cui oggi mi fa ridere quando sento parlare della
Generazione dei Fenomeni. In quel 1989 nessuno e dico nessuno credeva in quella
squadra, io invece avevo visto che sarebbero potuti diventare campioni. Per
quello che scommisi su quel gruppo e per dimostrare quanta fiducia avevo, come
Cortes bruciai le mie navi. Puntai su quei ragazzi”. E ancora 30 anni dopo la
storia di quel gruppo è un paradigma, non solo nello sport ma anche
nell’impresa.
(Fonte: Gazzetta.it)
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