Giuliano Bergamaschi, il Mental Coach (ma lui preferisce essere chiamato pedagogista) degli azzurri, racconta i segreti che hanno portato alla vittoria: "Similitudini con la nazionale di Mancini"
"Non
chiamatemi Mental Coach, io sono un pedagogista". Giuliano Bergamaschi è
uno dei cardini dello staff di Fefè De Giorgi sulla panchina dell’Italia che, a
sorpresa, dopo 16 anni ha interrotto il digiuno d’oro in Europa.
Laureato in
Filosofia e in Pedagogia, insegnante a contratto all’Università di Verona
(“Insegno didattica applicata all’allenamento”), da vent’anni collabora con il
tecnico azzurro (“Già quando era allenatore/giocatore a Cuneo”) e racconta la
favola di un gruppo di giovani che in sette settimane ha imparato a vincere,
insieme.
Come è nata
questa magia?
“Questa è una
squadra giovane, molto fertile nell’apprendere, nel mettersi in gioco. Aperta a
lavorare su motivazione, valori e crescita. L’elemento chiave è stato il tema
di tutto il progetto, quello che Fefè mi disse dopo aver parlato con il
presidente della Federazione: volevamo ritornare a un senso profondo di
appartenenza alla nostra nazione, ancora di più importante dopo la pandemia.
Abbiamo lavorato sul concetto di patria, ma evoluto, perché fosse vissuto come
uno stile, un modo di essere: la condivisione, la cooperazione per arrivare a
risultati di eccellenza”.
Se lo
aspettava questo oro?
“De Giorgi ha
sempre detto che questi ragazzi tecnicamente hanno i numeri per vincere
qualcosa di importante. La sorpresa è che arrivasse così in fretta, dopo poche
settimane insieme”.
Qual è stato
il suo ruolo?
“Collaboro con
De Giorgi da tanti anni, so qual è la sua idea di lavoro: lui si concentra
sull’aspetto tecnico, fisico e mentale. E io mi occupo di questo su 4 livelli:
come fare, l’allenamento, la relazione con sé e con gli altri, la
partecipazione. Abbiamo fatto incontri con lo staff e con i giocatori. Di
questo gruppo conoscevo solo Anzani, gli altri li ho incontrati per la prima
volta nel primo collegiale. Ho trovato ragazzi che hanno tanta voglia di
divertirsi, ma anche molto sensibili al lavoro. Perché come ama ripetere De
Giorgi: insieme si nascondono i difetti”.
Così si è
superata la mancanza di esperienza di tanti giocatori?
“L’esperienza è
fondamentale, ma dipende da come la usi. E’ utile, ma può diventare anche una
grossa comodità. Il coinvolgimento ha aiutato a superare il fatto che in tanti
avessero un’esperienza modesta a livello internazionale”.
Avete
inserito regole particolari?
“Fefè ha sempre
messo alla base del suo lavoro che tutto ciò che si fa è per uno scopo, che devi
andare oltre all’interesse particolare. Credo che ci siano similitudini con il
lavoro che ha fatto Mancini con la nazionale di calcio".
In che cosa?
“Come Mancini,
Fefè ha molto rispetto del passato da giocatore”.
Vede qualcosa
della generazione dei fenomeni in questa squadra?
“De Giorgi
secondo me si è portato soprattutto due cose di quegli anni: Velasco ha portato
quello che io chiamo onestà, sincerità di lavoro, tramite l’eliminazione di
alibi e comfort. E poi l’utilità di quello che serve, nel senso: no agli
egoismi, si deve essere rivolti a quello che è utile per vincere.
L’elaborazione che ha fatto Fefè è di introdurre il concetto di lavoro di
gruppo, interdisciplinare. Lui è soprattutto un coordinatore, un decisore”.
Ci racconta
cosa c’è dietro l’urlo di battaglia degli azzurri: “Noi, Italia”?
“E’ la sintesi
di valori di questa nazionale, lo sarà anche per il futuro. Siamo testimoni del
modo di essere Italia, di uno stile. Noi è l’Italia che gira intorno a noi,
siamo noi che giriamo intorno: in fondo questi talentuosi ragazzi della
nazionale del volley sono dei nuovi patrioti che senza retorica danno l’esempio
di come impegnarsi a vincere insieme con il gusto della cooperazione”.
Lo confessi,
ma con De Giorgi non ci sono stati mai momenti di tensione?
“(risata) Solo a
tavola, io sono mantovano e cultore del pesce gatto. Lui convinto della
supremazia del pesce salentino...”.
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