In questo bell'articolo l'ex C.T. della nostra nazionale, Mauro Berruto, ci offre la sua interpretazione sul perchè la pallavolo fra tutti gli sport di squadra è lo sport di squadra per eccellenza
MAURO BERRUTO: Il
mio Volley
Il volley: il vero
gioco di squadra
Il volley è lo sport più di squadra fra gli sport di squadra.
Basta pensare ad alcune caratteristiche specifiche del gioco. Il volley, prima
di tutto, è uno sport il cui regolamento impedisce agli atleti di bloccare la palla
e di toccarla due volte consecutivamente. Questo fatto capovolge il concetto di
“campione”: nel calcio il prototipo del campione proprio colui che è capace
di scartare la difesa avversaria al
completo e segnare il goal. Nel basket il campione per eccellenza è l’atleta capace
di catturare il rimbalzo in difesa e dopo un entusiasmante coast to coast
andare a schiacciare nell’anello dalla parte opposta del campo. Nel rugby il
campione è chi riesce a correre metri e metri con l’ovale in mano trascinando al
traino difensori inutilmente aggrappanti alla sua maglietta e ai suoi
pantaloncini. Le azioni che ho descritto sono quelle che strappano i più grandi
applausi, che fanno sognare i tifosi. Nel volley tutto ciò non solo è impossibile, ma impedito
dal regolamento che impone, al contrario, il passaggio. E il passaggio
coinvolge, in ogni azione, il 50% della squadra perché (anche se tutti si
muovono funzionalmente alla costruzione dell’azione e alla realizzazione di un
progetto offensivo o difensivo che sia) tre giocatori su sei sono sempre
direttamente coinvolti nell’azione toccando fisicamente la palla.
La seconda caratteristica che connota il volley come gioco
di squadra è legato alla “densità” di occupazione del territorio. Infatti sei
giocatori in campo (sette in totale considerando il libero) si devono muovere
in maniera freneticamente coordinata in uno spazio dalle dimensioni
contenutissime: ottantuno metri quadrati all’interno dei quali sei atleti di
due metri devono rincorrere uno strumento che viaggia più di cento chilometri
orari, fondando i propri schemi difensivi su trenta centimetri di spazio
lasciato più o meno libero agli attaccanti avversari, organizzando schemi
offensivi dove l’attaccante e la palla devono trovarsi venti centimetri più in
alto o più in basso o qualche spanna più vicino o lontano al
palleggiatore.
Egoismo di gruppo
Mi piace considerare la squadra, dunque, come la cosa più
importante. Più importante dei singoli giocatori, più importante dell’allenatore.
Mi piace quando i tabellini dei match che disputiamo ci mostrano grande
democrazia nella realizzazione dei punti, mi piace quando il nostro
palleggiatore riesce a mandare tutti i cinque attaccanti oltre i dieci punti.
Mi piace considerare la squadra come un organismo, dove tutti gli organi sono
vitali e in relazione diretta gli uni con gli altri. Sono in costante ricerca
della realizzazione di una definizione: “egoismo di gruppo”. Questo “egoismo di gruppo” lo rincorro non
solo nella gestione degli atleti ma anche nell’organizzazione dello staff che è
una vera squadra nella squadra. Sono felice quando tutti coloro che insieme a
me lavorano al servizio della squadra sono convinti di aver fatto almeno una
cosa utile per il match: un’indicazione tattica, un massaggio, una buona seduta
di pesi e di lavoro fisico, la miglior terapia medica, la migliore
organizzazione possibile della trasferta, un dato statistico che ci indica
l’efficienza di un fondamentale. Questi sono banali esempi di come l’assistente
allenatore, il fisioterapista, il preparatore atletico, il medico, il team
manager o lo scoutman possano essere totalmente coinvolti nel progetto del
match e sentirsi completamente partecipi della vittoria (come della sconfitta…)
domenicale. Se ogni persona dello staff, come ogni giocatore, sa esattamente
che cosa sta facendo e perché lo sta facendo i ruoli saranno chiari e ben
definiti e il livello di maturitá del gruppo intero salirá vertiginosamente.
Non atleti maturi, bensí un team maturo e consapevole é condizione necessaria
per ottenere successi nel nostro sport.
Poche idee ma molto
chiare
Credo che il più bravo degli allenatori sia quello che
ha poche idee ma molto chiare. E
soprattutto colui che riesce a fare si che queste poche idee chiare siano
trasmesse in modo altrettanto chiaro e siano poi messe in pratica in modo
corretto. Il parametro per giudicare un allenatore (di pallavolo, ma non solo)
non è quello di capire quante e quanto complicate sono le sue idee ma con
quanta forza riesce a trasmetterle ai suoi atleti, quanto i suoi atleti credono
e si riconoscono in quelle idee e con quale qualità le applicano sul campo da
gioco. Le grandi squadre non fanno cose diverse, ma le fanno meglio. In
particolare fanno molto meglio le cose semplici: un appoggio, un palleggio di
secondo tocco, la gestione di un free-ball. Io ho qualche idea
sull’organizzazione del gioco, sulla tecnica, sulla tattica, certo. Ma
soprattutto ho un’idea che determina tutto ciò che faccio, che ossessivamente
ripeto e nella quale credo fortissimamente: che la pallavolo sia uno sport in
cui solo la squadra fa la differenza. La squadra è un valore “sacro” da
inseguire e che si raggiunge solo attraverso il sacrificio individuale della
propria voglia di protagonismo, solo mettendosi al suo servizio anche e soprattutto
quando questo rappresenta un sacrificio dal punto di vista tecnico (per esempio
attaccando meno palloni). Il lavoro di noi allenatori? Trovare il primo giorno
della preparazione dodici atleti diversi per lingua, cultura, razza, religione,
modo di allenarsi e di intendere la pallavolo e creare una squadra che parla la
stessa lingua, nella quale l’altruismo sia forza trainante. Permettere ai
giocatori di crescere come atleti e come individui nel momento in cui
consapevolmente decidono di subordinare loro stessi allo sforzo di gruppo.
Questo è il lavoro di un allenatore. Un lavoro privilegiato perché nella
felicitá del successo come nel momento della delusione, permette il ripetersi
di questo miracolo di stagione in stagione.
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