Riportiamo l’articolo che Filippo Vagli ha scritto per la
rivista on-line di pallavolo Volleyball.it e
pubblicato nella rubrica denominata “A spasso nel tempo”
NAVIGANDO TRA GLI
OPPOSTI. DAL 4-2 ALLA SPECIALIZZAZIONE. Di Filippo Vagli
Uno dei ruoli
che più di ogni altro ha cambiato radicalmente aspetto tra la pallavolo dei
primi anni ’80 e quella odierna è quello dell’opposto, quel giocatore che nella rotazione di partenza viene
schierato in diagonale (da qui il termine “opposto”) rispetto al palleggiatore.
Fino alla fine
degli anni ’70 la maggior parte delle squadre di pallavolo si schierava in
campo con la formula del doppio
palleggiatore e quindi il ruolo dell’opposto non esisteva. Ogni squadra
aveva in campo non uno ma bensì due registi che, a turno, si occupavano di
alzare i palloni per i propri attaccanti. Di norma, tra i due, era quello di
seconda linea che fungeva da alzatore, in modo tale da avere sempre tre
attaccanti da poter sfruttare in prima linea: lo schiacciatore di zona quattro,
il centrale e il palleggiatore di prima linea. Con questo tipo di schieramento, l’alzatore,
nelle tre rotazioni in cui si trovava in prima linea, era un vero e proprio schiacciatore
da posto due, zona che un tempo veniva denominata “fuori mano”.
In Italia, l’allora Cus Torino targato
Robe di Kappa del Professor Silvano Prandi conquistò ben quattro scudetti tra
la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 (precisamente nella stagioni
78/79, 79/80, 80/81 e 83/84) sfruttando questo modulo grazie alla possibilità
di poter schierare nel doppio ruolo di regista/attaccante campioni estremamente
dotati sia nel fondamentale del palleggio che in quello dell’attacco, del
calibro di Piero Rebaudengo, Gianni Lanfranco (che diventerà negli anni ’80 uno
dei centrali più forte di tutti i tempi della pallavolo Italiana) e un
giovanissimo talento di Massa, quel Fabio Vullo che nel ruolo di palleggiatore
unico, diventerà negli anni successivi uno dei totem della pallavolo Italiana.
Furono però quelli gli ultimi squilli di
tromba per il cosiddetto 4-2, il sistema di gioco che prevedeva la presenza
in campo di quattro attaccanti e di due alzatori. I primi anni ’80 videro infatti
privilegiare per la maggior parte delle squadre la soluzione con un solo
alzatore in sestetto e la relativa sostituzione di uno dei due palleggiatori
con un ruolo nuovo, quello dell’opposto. I primi opposti, negli almanacchi
dell’epoca venivano denominati come “universali”
e già da questa definizione si può intuire quali caratteristiche doveva
possedere chi ricopriva tale ruolo. La principale tra queste era quella di
possedere una buona tecnica in generale, attraverso la quale questo giocatore
doveva riuscire a destreggiarsi bene in tutti i fondamentali, anche senza eccellere
in qualcuno di questi, al fine di commettere il minor numero possibile di
errori e dare equilibrio alla propria squadra. In primis gli veniva richiesta buona
qualità nel fondamentale del palleggio, dal momento che quando l’attacco della
squadra avversaria veniva difeso dal palleggiatore, era proprio l’opposto ad
occuparsi di alzare e di organizzare quindi l’azione di rigiocata della propria
squadra. Doveva poi possedere buone attitudini nel fondamentale della ricezione
della battuta avversaria dal momento che di norma veniva impiegato nella linea
di ricezione in tutte e tre le rotazioni in cui si trovava in seconda linea,
così come doveva essere dotato di buona manualità nel fondamentale
dell’attacco. Un attaccante tendenzialmente più tecnico che potente, dal
momento che sferrava i suoi attacchi solo dalla prima linea e sempre con l’attacco
a tre, e quindi insieme al centrale e allo schiacciatore di zona quattro. Anche
a muro doveva garantire una buona capacità di tenuta, considerato che il
giocatore che mura in posto 2 è chiamato a fronteggiare gli attacchi provenienti
dal posto quattro avversario, zona in cui venivano concentrati la maggior parte
degli attacchi nella pallavolo di quegli anni.
La pallavolo
italiana dei primi anni ’80, ha avuto grandi
interpreti in questo tipo di ruolo, tra cui possiamo ricordare Giorgio Goldoni,
universale della Panini Modena e della Veico Parma, Maurizio Ninfa catanese
della Santal pluriscudettata di Kim o Chul, il modenese Rodolfo Giovenzana,
l’ex di Sassuolo, Modena e Montichiari Mauro Di Bernardo, Ernesto Pilotti,
vincitore di tre scudetti e una Coppa Campioni nella Torino di Silvano Prandi e
molti altri ancora. Tutti atleti non particolarmente “fisicati” ma dotati principalmente
di grande tecnica, intelligenza tattica e ottima efficienza, quell’indice così
importante nell’economia di una squadra di volley, che rileva la capacità di
un’atleta di mettere a segno punti per la propria squadra commettendo il minor
numero di errori possibile.
Fu intorno alla metà degli anni ’80 che
la figura dell’opposto incominciò ad evolvere verso soluzioni diverse. Tutto ciò
avvenne quando alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984, una grandissima
nazionale fece irruzione sulla scena internazionale, non solo vincendo la
medaglia d’oro olimpica, ma stravolgendo completamente quella che era stata la
pallavolo fino a quel giorno. Stiamo parlando della grandissima nazionale
statunitense guidata da Doug Beal, Coach che rivoluzionò la pallavolo mondiale
introducendo un concetto fino ad allora mai utilizzato nella pallavolo, quello
della specializzazione. La squadra a
stelle e strisce era organizzata in campo con soli due uomini, Karch Kyraly e
Aldis Berzins, gli schiacciatori di zona quattro (vere e proprie macchine in
questo fondamentale), impegnati nella ricezione a tutto campo sei rotazioni su
sei, con un terzo giocatore (il centrale di seconda linea) che entrava nella
linea di ricezione soltanto in occasione di ricezione di una battuta in salto
della squadra avversaria. L’opposto, l’ex universale, escluso da compiti di
ricezione viene quindi trasformato in un attaccante puro, da prima e da seconda
linea (da posto 1) sia in fase di cambio palla (allora si giocava ancora con
quel tipo di sistema) che in fase di rigiocata/punto. La nazionale USA in quel
ruolo schierava Pat Powers, straordinario attaccante di 195 centimetri che
nella seconda metà degli anni ’80 deliziò anche le platee italiane esibendosi
nell’allora Bistefani Torino. A Powers, Doug Beal, chiedeva due cose: attaccare
(compreso quando era in battuta) e di murare. Due sole cose, ma eseguite in
maniera perfetta, con percentuali nettamente superiori ai colleghi di ruolo
delle altre squadre. Da quel momento, l’eventuale secondo tocco, in caso di
difesa del palleggiatore, sarebbe diventato di competenza del centrale di prima
linea.
Ecco che anche in Italia, osservando
quello che stava accadendo oltreoceano, le cose iniziarono a muoversi in quella
stessa direzione. Nella stagione 1983/84 il Kutiba Falconara “ammazza grandi” guidato
da Marco Paolini schiera nel ruolo di opposto il compianto Gianfranco Badiali,
atleta con caratteristiche fisico-tecniche che incominciano ad avvicinarsi a
quelle degli opposti moderni. La Santal Campione d’Europa nella stagione
1984/85 utilizza nel ruolo di opposto Pier Paolo Lucchetta, atleta potente di
202 centimetri, con compiti di attaccante puro, da prima e da seconda linea. E
nel 1988 la nazionale azzurra, che proprio in quell’anno diventerà per la prima
volta nella sua storia campione d’Europa, schiererà nel ruolo di opposto Andrea
Zorzi, 201 centimetri, grandissimo attaccante destinato a diventare uno dei più
forti opposti della pallavolo internazionale. Quell’Andrea Zorzi che nel 1990,
vincendo la gara a distanza con il campione cubano Joel Despaigne, uno dei più
grandi opposti della pallavolo mondiale, diede un contributo di straordinaria
importanza all’Italia nel riuscire a vincere il primo dei suoi tre titoli
iridati consecutivi (1990 – 1994 – 1998), i primi due sotto la guida tecnica
del grande argentino Julio Velasco e il terzo con in panchina un genio
brasiliano, il compianto Paulo Roberto de Freitas, più noto al grande pubblico
come Bebeto.
Da quegli anni, l’opposto
è diventato sempre di più un atleta dal grande fisico, dotato di notevoli doti
di salto (oggi i migliori colpiscono il pallone a 3,70 metri di altezza circa)
e di potenza, a cui le proprie squadre fanno ricorso quando i palloni da
attaccare scottano, così come quando sono obbligate a giocare in modo scontato,
con palla alta contro muri composti da due o tre uomini. Atleti che hanno
legato in modo indissolubile il proprio nome alle grandi vittorie delle proprie
squadre. Come non ricordare, solo per citarne alcuni, Steve Timmons, prima
grande centrale e poi formidabile opposto statunitense (così come il nostro
Alessandro Fei) vincitore di due ori e un bronzo olimpico, Marcelo Negrao,
brasiliano, medaglia d’oro alle Olimpiadi del 1992 di Barcellona nonché
vincitore di più Word League, Dimitrij Fomin, straordinario opposto nato a
Sebastopoli e plurivincitore di titoli nazionali ed internazionali con Ravenna,
Treviso e nazionale Russa, Ivan Miljković, serbo, 206 centimetri di muscoli, campione
a Macerata. Fino ad arrivare ai giorni nostri dove campioni quali il russo Maksim
Michajlov, lo statunitense Matthew Anderson, il serbo Aleksandar Atanasijević e
il nostro Ivan Zaitsev, rappresentano i terminali offensivi più importanti per
le proprie squadre. Veri e propri punti di riferimento in uno sport dove, per
vincere le partite, mettere la palla per terra, rappresenta sempre più un
elemento di fondamentale importanza.
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